Dov’è l’Angola?» si chiesero tutti gli astanti alla cerimonia di premiazione dell’ultima Biennale d’arte. «Proprio accanto al ponte dell’Accademia», risposero subito i bene informati, «prendete il vaporetto: va bene sia la linea Uno che la linea Due». E tutti corsero. Per scoprire insieme agli artisti angolani degni del Leone d’Oro, un tesoro tutto italiano: Palazzo Cini di San Vio. Palazzetto in realtà, a confronto coi palazzoni torniti del Canal Grande. Ma immenso per la qualità dei suoi ospiti: Giotto, Beato Angelico, Piero di Cosimo, Pontormo, Botticelli, Filippo Lippi, un’intera sala dedicata al Rinascimento ferrarese (da Cosmè Tura a Ercole de’ Roberti passando per Dosso Dossi) e una “Madonna con bambino” di Piero della Francesca che ha rubato il rosa all’aurora.
Anche il cuore del più talebano contemporaneista si spezzò di fronte a tanta meraviglia. E la domanda allora fu : «Ma perché non lo conoscevamo?». Risposta: perché era un luogo per pochi intimi e molto studiosi, praticamente chiuso. Orari bizzari e singhiozzanti. Pubblicità pochissima. Una gemma nascosta nel luccichio di Venezia, ma incastonata in quel percorso da vero viaggiatore che si distingue dai passi del turista.
[[ge:rep-locali:espresso:285135996]]Siamo sull’altra riva del canale lontani quel che basta da San Marco dove tra i vicoli di Dorsoduro si trovano, nel giro di mezzo chilometro, i capolavori veneti delle Gallerie dell’Accademia, le grandi avanguardie tra i giardini e terrazze di palazzo Venier dei Leoni che fu la casa o oggi collezione di Peggy Guggeheim fino alla ricerca super contemporanea messa in mostra da François Pinault in Punta della Dogana.
«Se poi vi punge vaghezza, potreste anche entrare alla Chiesa della Salute, tanto per chiudere la passeggiata con qualche Tiziano», avverte Luca Massimo Barbero da poco (settembre 2013) direttore artistico della Fondazione Cini. Ma quel poco è bastato. Nominato «per la sua grande capacità organizzativa e per il suo background culturale» (come da discorso dell’incoronanzione pronunciato dal segretario generale, Pasquale Gagliardi), Barbero non si è smentito: in pochi mesi ha restaurato da capo a piedi il Palazzo di San Vio per renderlo fruibile al pubblico, ha messo ordine negli orari e stampato candidi ed eleganti libricini esplicativi, ha installato illuminotecnica di ultima generazione in grado di esaltare i colori uno ad uno e poggiare un velo luminoso su ogni dipinto senza alterarne di un millesimo di grado la temperatura, ha sistemato percorsi, organizzato eventi e improvvisato un minimo (ma molto chic) bookshop nell’ingresso. E soprattutto è stato portato a termine un restauro profondo ma conservativo sull’edificio, in pieno rispetto anche degli interventi anni Cinquanta di Tomaso Buzzi: architetto della buona e colta borghesia, amico personale del conte Cini uomo così raffinato da sviluppare in spazi angusti una perfetta scala ovale che non sfigura di fronte ai suoi storici modelli: tipo la scala regia del Vignola a Palazzo Farnese, la scala “ovata” del Palladio o quella elicoidale del Borromini. E così dallo scorso 24 maggio Cini ha riaperto al pubblico per sei mesi ogni anno la collezione (chiuderà il 2 novembre fino alla primavera) in modo che durante l’inverno le opere siano concesse in prestito ai tanti musei che le chiedono o siano oggetto delle cure necessarie per tornare in scena il prossimo maggio.
Sia pure stagionale, la rinascita di palazzo Cini a San Vio è uno dei molti segni del cambiamento di una delle più prestigiose ed esclusive Fondazioni d’Italia, sempre più interessata all’intero mondo e non solo alla cerchia esclusiva dei più grandi studiosi del mondo.
Del resto siamo nel solco dei desideri del fondatore Vittorio Cini che la volle nel 1951 in memoria del figlio Giorgio morto in un incidente con il suo aereo privato vicino a Cannes. Manager, imprenditore, politico, potente protagonista della trasformazione dell’Italia da Paese contadino a nazione industriale, Cini fu sempre uomo di tale potere e prestigio da ottenere sia dal Regime degli anni Quaranta la promozione nell’aristocrazia con il titolo di Conte di Monselice, sia dallo Stato repubblicano del dopoguerra la concessione demaniale dell’isola di San Giorgio per costituire lì la sua fondazione dedicata alla formazione professionale di nuovi quadri dirigenti.
Fin da subito divise il progetto educativo in arti applicate (il Centro Marinaro e il Centro delle Arti e Mestieri) e cultura umanistica. Tema a cui il Conte teneva di più. Posseduto da un desiderio onnivoro di conoscenza Vittorio Cini non costruì per sé una collezione, ma un mondo intero. Sceglieva bene i suoi amici, tutti signori coltissimi: architetti come Buzzi, storici/ critici come Nino Barbantini, specialisti studiosi conoscitori come Bernard Berenson o Federico Zeri. Erano i suoi consulenti, i suoi fidati consiglieri, uomini che portano le collezioni Cini a raggiungere livelli museali. E fu anche grazie a loro, probabilmente, che le acquisizioni non si limitarono ai capolavori, ma si estesero alle arti minori, alla raccolta di libri rari, a documenti, carte, pergamene, stampe... Nella sala che non a caso è stata battezzata “Sala del tesoro” riposano mille stampe del Piranesi, trenta codici miniati, duecentotrentaquattro miniature e migliaia fra disegni e stampe di varie collezioni che raccolgono matite, sanguigne, inchiostri e carboni di Guido Reni e Guercino, Piazzetta, Guardi, Tiepolo e persino rarissimi album di eruditi caricaturisti come Anton Maria Zanetti un cronista visivo e ironico della Venezia Settecento.
E poi, le biblioteche che superano i 300 mila volumi, la fototeca con le 750 mila immagini, la più vasta raccolta di libretti d’opera del mondo o il Centro Studi del Vetro, un luogo unico nel suo genere e ricco di circa 28 mila progetti, album di vendita, disegni, fotografie di campionario e preziosi inventari. Ma tutto questo non avrebbe davvero valore se fosse un tesoro sepolto negli scaffali. Invece per fortuna è in continuo movimento: tra una mostra in sede e un prestito al Metropolitan, tra le richieste di studiosi e studenti o gli artisti ospiti della ormai intensa attività sul contemporaneo (quella che ha regalato a Venezia un meditativo padiglione firmato Hiroshi Sugimoto inaugurato in giugno con una cerimonia del té degna dell’imperatore); tra un premio letterario, un convegno appena fatto e il prossimo in preparazione , la Fondazione ha una vita sociale a dir poco intensa.
Ma la missione voluta da Cini vive ancora soprattutto nelle borse di studio e residenze che animano l’isola intera e hanno reso necessaria la costruzione di una foresteria modello con tanto di palestra, cucina, sala computer e un sapore nordico tutto legno chiaro, vetri e luce lattea. E lì si suda davvero sui libri. Corsi di alta formazione sulla musica ottomana, seminari di studi storici, insegnamenti di traduzione poetica... l’elenco è lungo e vasto. Dall’arte alla musica, alla storia, alla letteratura non c’è disciplina né cultura del mondo che non venga accolta nell’Isola. Non è più solo un monastero per professori di Harvard o studiosi da Nobel. Le porte ormai si schiudono, i tesori si rivelano e le immagini di queste pagine sono la prima ampia testimonianza della nuova vita di una vera eccellenza italiana.
Cultura
27 ottobre, 2014Il complesso di San Vio era un gioiello italiano per pochi intimi e molti studiosi. Restaurato, viene ora aperto al pubblico. L’Espresso ci è entrato e ve lo racconta
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