Uno, due, tre, quattro appelli e niente numero legale. Si va di corsa sul jobs act, ma non abbastanza per arrivare in orario rispetto alla convocazione, complice il sovrapporsi delle votazioni in seduta comune, di Camera e Senato, per le nomine della Consulta. La discussione generale sul ddl lavoro doveva cominciare alla 9,30 ed è slittata alle 16, e solo al quinto appello, quindi, è cominciata la corsa, con la provvidenziale presenza del giusto numero di senatori di Forza Italia. Il governo vorrebbe arrivare al voto prima del vertice europeo sul lavoro, cioè entro la mattinata di domani, mercoledì. Impresa difficile, anche considerando l’intenzione del governo di porre la fiducia, e quindi di velocizzare («mortificare», dicono in coro M5s e Sel) il dibattito.
Fiducia che, per Renzi, è quasi un’abitudine, in realtà. «In quanto al frequente ricorso alla decretazione d'urgenza e alla posizione di questioni di fiducia, si tratta - come è noto - di una prassi di antica data, su cui il presidente Napolitano ha espresso le sue preoccupazioni, tendendo a porvi freno, fin dall'inizio e in tutto il corso del suo mandato». Il comunicato stampa del Quirinale è chiarissimo. Certo è del 2012 (e non è un caso che il democratico Giuseppe Civati abbia scritto al presidente Napolitano, segnalando l’abitudine del segretario del Pd) ma lo si potrebbe prender per buono, e forse anche per questo che il Giornale oggi compila una tabella dalle cifre arcinote. Il dato finale è uno: il governo di Matteo Renzi va avanti a colpi di voti di fiducia, più di quanto abbia mai fatto l’ex Cavaliere, più di Monti, più di Letta: su 24 leggi approvate durante il governo Renzi, 18 sono passate con la fiducia. Siamo al 75 per cento.
Per evitare la fiducia, dunque, sia il senatore Maurizio Santangelo, del Movimento 5 Stelle, che Loredana De Petris, si sono detti disponibili al ritiro degli emendamenti, lasciando quelli di merito più stringente, «togliendo così l’alibi a Matteo Renzi»: «Noi» dice De Petris, «abbiamo già ritirato 300 dei 350 emendamenti che avevamo presentato».
Il punto, comunque, è che la discussione generale è cominciata brancolando nel buio, perché l’emendamento del governo, che raccoglie la linea uscita dall’ultima direzione del Pd e riscrive la legge delega, è «pronto», come dice il sottosegretario Teresa Bellanova, ma non è ancora stato presentato. Quello che si sa, però, è che dovrebbe esser abbastanza vago, lasciando ai decreti legge, in particolare, la definizione del licenziamento disciplinare, per cui resterebbe il reintegro in applicazione dell’art. 18. Le opposizioni, anche quella interna al Pd, parlano non a caso di una legge delega «in bianco». E però si accontenteranno di un intervento in aula del ministro Poletti che, annunciato dal premier, anticiperà come il governo vuole tradurre la delega. Sul voto, comunque, non dovrebbero esserci particolari difficoltà. La minoranza Pd ex Ds è ormai chiaro che voterà sì: «Continuo a pensare che con questa riforma si rischia di perdere una grande occasione ma a chi mi chiede consiglio raccomando responsabilità e lealtà anche davanti a una forzatura come questo voto di fiducia: la fiducia non può essere in discussione», dice Pierluigi Bersani, parlando con i cronisti alla Camera.
Diverso dovrebbe esser l’atteggiamento dei civatiani, che però sono solo cinque: Corradino Mineo, Lucrezia Ricchiuti, Walter Tocci, Stefano Lo Giudice, e Felice Casson. Tra di loro, stando alle parole di Civati, «qualcuno potrebbe uscire», lasciando l’aula dopo una dichiarazione di voto molto critica. Su Civati e i suoi, però, piovono critiche da due fronti. Dalla maggioranza del partito, ovviamente, dai renziani, infastiditi dal pierino Civati, e però anche dalla sinistra, da chi sta fuori dal Pd, dall’area di Sel. Non è un caso che Paolo Cosseddu, braccio destro civatiano, membro della direzione del Pd, su facebook si lamenti così: «Damiano ha annunciato il sì alla fiducia, e del resto perché mai lui e i suoi sodali della minoranza ex diessina dovrebbero rompere? Con il partito così debole per loro è una pacchia, ci sono un sacco di territori in cui si può continuare a governare e mantenere la struttura in attesa di tempi migliori».
Si mette a contare i parlamentari, Cosseddu: «Hanno ancora dalla loro cento parlamentari, forse di più, se volessero potrebbero condizionare molto molto pesantemente questo esecutivo, e invece no». Invece, la minoranza ex Ds si adeguerà nel nome della ditta, «tanto nessuno chiede conto delle loro azioni, mentre invece scommetto il mio Tfr (che non ho) che un tot di gente di destra e sinistra, militanti e commentatori d'ogni livello e risma, inizierà a rompere a Civati». Così è, in effetti, almeno in Senato, dove senatori di Sel e del Movimento si dicono poco convinti del fatto che Mineo e gli altri, alla fine, faranno effettivamente uno sgarbo a Renzi.
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7 ottobre, 2014In aula si attende l’emendamento del governo. Matteo Renzi vorrebbe chiudere, mettendo un voto di fiducia, prima del vertice europeo sul lavoro. Ma pare una "mission impossible"
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