Dopo la nostra inchiesta sulle violenze sessuali nelle campagne ragusane, il territorio si mobilita. Padre Beniamino: “Mi accusano di rovinare il paese, ma non posso tacere”. Le aziende si difendono. Troppi sapevano e hanno taciuto. Ci sono denunce di donne che risalgono a quattro anni fa. Cadute nel vuoto
«Se non mi dai baci, andate via tu e tuo marito». Risale a quattro anni fa la denuncia di una coppia rumena al commissariato di Vittoria. «Finché tua moglie non fa un giorno d’amore con me, non vi pago gli arretrati». Il ricatto finisce nel verbale. Nulla di segreto, la testimonianza si trova anche nel video “Solidal”, prodotto dalla Cgil e reperibile in rete. Ma la denuncia cade nel vuoto, la coppia rimane senza lavoro e va a vivere in un tugurio in campagna.
Non tutti denunciano. Il programma di protezione anti-tratta ha raccolto dodici fascicoli in due anni di attività. E qualche rumena è tornata in serra. Perché? «Queste donne mantengono le loro famiglie. Se non si offrono loro alternative credibili allo sfruttamento il circuito non potrà essere spezzato», spiega Alessandra Sciurba, che ha curato una ricerca sul tema per “
L’altro diritto”, centro di documentazione dell’Università di Firenze.
Dopo
l’inchiesta de l’Espresso sulle lavoratrici rumene sfruttate sessualmente, il territorio si è mobilitato. Molti in difesa del comparto produttivo e della serietà della maggior parte delle aziende. Ma c’è chi chiede interventi risolutori. «Per i cittadini comunitari è necessario sganciare residenza e reddito, permettendo quindi a tutti di iscriversi all’anagrafe e da lì cominciare a rivendicare diritti», propone Sciurba.
«Occorre distribuire meglio la ricchezza che nel territorio c’è. Ci sono aziende che rispettano i contratti e altre che fanno concorrenza sleale con i sottosalari. E bisogna potenziare i programmi anti-tratta», spiega il sindacalista Peppe Scifo della Flai. «Abbiamo pochissime risorse per fronteggiare un problema di dimensioni sempre più vaste».
Il progetto “Solidal transfert” promosso da Cgil e “Medici senza frontiere” ha permesso l’emersione di molte donne. Grazie a quel programma conosciamo le loro storie. Eppure va avanti a forza di proroghe. Se non ci saranno novità rischia di fermarsi a fine anno. Un pulmino a nove posti copre l’area tra Vittoria, Scoglitti, Acate e Santa Croce Camerina. «Accompagniamo le donne a fare la spesa o a una visita medica. A volte persino a cercare acqua potabile», dice a l’Espresso Emanuele Bellassai della cooperativa Proxima. Così si rompe l’isolamento, si evitano i ricatti del padrone. E si ascoltano storie terribili.
Le donne che denunciano vengono inserite in un programma di protezione che prevede l’allontanamento dal luogo della violenza e l’ospitalità. In maniera più discreta possibile, per evitare che le vittime possano essere rintracciate e subire altre intimidazioni. Il rapporto di Proxima fa venire i brividi: «Le donne si lamentano delle aberranti condizioni igieniche in cui versano gli alloggi, spesso messi a disposizione dei datori di lavoro. Veri e propri tuguri, angusti e, in alcuni casi, senza neanche l’energia elettrica».
Anche la Chiesa non fa mancare il suo impegno. «Abbiamo accolto alcune donne rumene in stato di gravidanza in parrocchia», racconta Padre Beniamino Sacco, il primo a denunciare i “festini agricoli”. «Dicono che c’è il consenso della donna? In stato di disagio economico non hai diritto a dire no. Si tratta di violenza. La dignità di queste donne è offesa dall’atteggiamento di “padronanza”. C’è chi pensa di poter usufruire della vita degli altri come vuole e quando vuole». «La direttiva europea sulla tratta, che certamente ricomprende casi come quello del ragusano, dice che la “posizione di vulnerabilità” di queste donne deriva dal fatto di non avere altre alternative che cedere all’abuso. La questione del consenso è irrilevante», conclude Sciurba.
«Nessuno vuole generalizzare, la maggioranza dei produttori è onesta. Ma questi fenomeni non sono isolati», spiega padre Beniamino. «Qualcuno mi accusa di aver rovinato il paese per aver difeso gli immigrati. Sono orgoglioso di essere stato dalla loro parte. Non potevo tacere».
Le violenze sessuali sono solo la punta dell’iceberg. Ad agosto un lavoratore del Bangladesh è stato ucciso in piena campagna con una coltellata all’altezza del cuore. Misterioso il movente, forse legato al racket delle giornate agricole. Sicuramente la spia di una violenza ormai diffusa.
«Nei nostri viaggi col pulmino incontriamo troppi lavoratori in nero, non contrattualizzati», racconta Bellassai. «Ho visto migranti con crediti da riscuotere per 4mila euro. Per mesi hanno ricevuto solo acconti. I soldi si accumulavano. “Quando vendiamo i prodotti al mercato ti pagheremo”, rispondevano i padroni». Anche gli uomini subiscono prevaricazioni. Un rumeno è caduto dalla scala su cui lavorava, per lui una frattura al braccio. «Da 22 mesi aspettiamo un’ispezione in quell’azienda» conclude Bellassai. «Registriamo troppa lentezza nella burocrazia».