Veronesi li ama. Camilleri li detesta. Welsh esagera, Franzen li ignora. Eppure, a follower, retweet e like la maggior parte di loro non resiste. Anzi. Ormai sono molti  coloro che hanno cominciato a considerare Twitter, Tumblr, Facebook, Instagram piazze da frequentare

Camilleri non c’è. «Non ho un profilo Facebook, non ho un sito e non sono su Internet. L’account col mio nome? Li denuncio», ha imprecato. J. K. Rowlings, invece, per la gioia di quattro milioni di follower, interviene di continuo su Twitter, spesso a nome di Harry Potter. E Jonathan Franzen, tra i primi beffati da un account pirata (@RealJonFranzen), ha preso le distanze da social network e altre tecnodiavolerie già da un pezzo: «Uno scrittore dovrebbe evitare di buttare tempo cinguettando su Twitter», ha scritto ne “Il progetto Kraus” (Einaudi).«Il fatto è che oggi è l’opera di letteratura a non durare più di un tweet», ha notato Aldo Busi, per dire che i social non fanno per lui: «Ognuno sta solo sul cuore delle app, ed è subito oblio».

Eppure, a follower, retweet e like la maggior parte degli scrittori non resiste. Anzi, obbligati dal marketing o spinti dai lettori, in prima persona o attraverso le case editrici, hanno cominciato a considerare Twitter, Tumblr, Facebook, Instagram, e persino Pinterest, piazze da frequentare.

James Patterson, il più pagato al mondo secondo Forbes, quattro milioni di amici su Facebook, interviene più di una volta al dì, postando di tutto: opinioni, l’ultima libreria in cui è entrato, i romanzi letti. Lo fa anche Giancarlo De Cataldo su Twitter: segnala i film visti o i libri amati («“I misteri della Jungla nera”: il mio primo Salgari. Mi segue da mezzo secolo»); pubblica foto di viaggio; commenta il calcio. Ma, a conti fatti, i suoi follower sono poco più di 2000. Entusiasta è Salman Rushdie, che conta 800 mila fan. Roberto Saviano è in dialogo con 2 milioni e 600 mila persone su Facebook e quasi 800 mila su Twitter. E se il bulimico Irvine Welsh (ha sfornato 45 mila tweet) ha fatto di Twitter il suo terreno di battaglia per la Scozia, Jeff Kinney, l’autore del “Diario di una schiappa”, è tra i più snob: ha 28 mila follower, ne segue solo 16.

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«I social network sono straordinari strumenti di dialogo e di informazione», dice Caterina Bonvicini: «Ho intervistato via Twitter Elizabeth Strout, ho suggerito libri che mi sono piaciuti. Ne riconosco la forza virale. Ma li ritengo letali per la concentrazione». Non la pensa così Sandro Veronesi, figura consolidata nell’universo social letterario. Al punto da presentare subito l’ultimo romanzo, “Terre rare” (Bompiani), appena uscito, a blogger, giornalisti del web, lettori dei social media. Stufo dei giornalisti tradizionali? «È solo un modo per riconoscere una realtà nuova», spiega: «Che si presta a un resoconto in diretta, misura le reazioni nell’immediatezza».

Qualità che abitualmente sperimenta: «È una questione di stili di vita: magari chi è abituato al silenzio e all’isolamento, quando scrive, trova Twitter dispersivo. Per me, quel tempo perso è un valore. Io non mi concentro mai. Non ho uno studio per lavorare, scrivo con la tv accesa e con i miei figli intorno. Sono abituato alle interferenze e, anzi, di esse mi nutro: prendo sul serio le cose che mi disturbano, perché spesso da lì arriva una parola, un’impressione, la soluzione che cercavo. Il mio tempo è già una stracciatella, figuriamoci se sprecarne cinque minuti alla volta incide così tanto». Effettivamente, certi tweet non sono memorabili: «Cazzeggio. Per il cinquanta per cento. Per l’altra metà parlo di cose interessanti che ho letto o visto. Twitter mi fa conoscere meglio le persone: ho consolidato il mio disprezzo per Bret Easton Ellis il giorno in cui è morto Salinger e ha pubblicato un epitaffio carico di risentimento: l’ho bannato per sempre».
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Il dibattito è forte e investe la narrativa stessa. Se Joshua Ferris, in “Svegliamoci pure, ma a un’ora decente” (Neri Pozza), aveva sollevato il tema del furto d’identità in Rete, è ora un altro scrittore di culto a provocare: Dave Eggers, in “The Circle”, esplicito upgrade, in chiave social appunto, di “1984”. Da quando è uscito, negli Stati Uniti, è polemica: se nella Internet company del romanzo la trasparenza è legge, è opportuno che uno scrittore abbassi i suoi livelli di privacy? «Twitter è un posto pubblico: basta non avere comportamenti che non avresti a cena da un amico o per le strade», replica Veronesi. Certo è che i social svelano di chiunque più di quanto si immagini. E, una volta dentro, i buoni risultati non sono affatto scontati. C’è chi fa il ruffiano, chi è freddo, chi troppo saccente. Prove tecniche di modernità che non sempre imboccano il tono, e i temi, giusti. «Sentirsi in colpa è romantico», scrive Diego De Silva, talvolta meno caustico e ironico sui 140 caratteri che in tante sue pagine (immediate le stroncature: «Sarà, ma è una gran rottura di coglioni»; «Sentirsi in colpa è inutile»).

Neppure essere veterani dell’industria editoriale è garanzia di successo: Wilbur Smith, entrato da poco, conta solo 700 follower. Niente al confronto di uno come Massimo Bisotti che, forte di un blog da 60 mila seguaci ricolmo di sentenze dolciastre, è approdato in Mondadori ed è alla terza ristampa de “Il quadro mai dipinto”. Fenomeno di partenogenesi della Rete che, abbinato al self-publishing, è ormai consueto negli Stati Uniti. Il magazine “Flavorwire” l’ha certificato, stilando la classifica degli autori che, coltivando la presenza online, hanno aumentato popolarità e vendite: Emma Straub, Neil Gaiman, Colson Whitehead, Emily Gould, Elif Batuman, Jami Attenberg, John Green.

Il gran dilemma si è comunque ormai insinuato anche in Italia: esserci o non esserci. Valeria Parrella non c’è, Michela Murgia sì, e con l’aria di divertirsi molto. Claudio Magris, che si è ritrovato su Facebook a sua insaputa, ha rivendicato il diritto alla “disabilità digitale”: non esserci, ed esserne fiero. Come Michele Serra: «Lasciami libero, avatar: ho già una socialità esondante», ha scritto. E se Carlo Lucarelli usa i social moderatamente, li tiene a distanza Niccolò Ammaniti. Edoardo Nesi usa Twitter. Simona Vinci preferisce Facebook. Ma il campione assoluto è Fabio Volo: un fiume di parole e foto, con l’atteggiamento scanzonato dello scrittore per caso. Roberto Cotroneo, 16.500 follower, parte dei suoi tweet li ha salvati l’anno scorso in un libro: “Tweet di un discorso amoroso” (Barbera): «Perché tutti scrivono su Twitter e Facebook? È un modo di togliere peso al tempo», scrive: «L’essere-nel-mondo ha a che fare con la temporalità. L’essere-nel-web con l’atemporalità. È una solitudine collettiva».

Non sembra soffrirne Luca Bianchini: il suo successo si alimenta anche della complicità creata on line. Investimento che pochi possono permettersi di ignorare. Donna Tartt: zero tweet, 3000 follower. Zadie Smith: non è su Twitter, non ha blog, in 37 mila seguono la pagina Facebook dell’editore. E Robert Scott: 2797 tweet dall’Antartide, poi il silenzio. Ma nessuna agitazione: l’esploratore-scrittore, riportato in vita da appassionati, è morto da un bel pezzo.