Lo Stato Islamico crollerà su se stesso. Per la rivolta della popolazione sunnita oppressa. E i volontari torneranno tra ?le braccia di al-Qaeda. Intervista a Olivier Roy

Abu Bakr Al-Baghdadi
Lo Stato Islamico sparirà. Al massimo tra un anno. Travolto dalla sollevazione della popolazione che ora sta sotto il suo giogo. Altro che califfato dall’Andalusia fino all’Indonesia. Altro che conquista di Roma come vagheggia il suo leader Abu Bakr al-Baghdadi. Nel frattempo la comunità internazionale deve solo preoccuparsi di contenere la sua espansione e aiutare gli eserciti dei Paesi vicini che contrastano i fondamentalisti. Soprattutto non deve inviare truppe sul terreno per non alimentare quei sentimenti anti-occidentali che potrebbero aiutare la causa dei terroristi.

La previsione e la ricetta sono di Olivier Roy, 65 anni, francese, professore all’Istituto universitario europeo di Firenze, titolare della Cattedra Mediterranea al Robert Schuman Centre, tra i massimi esperti del mondo arabo e autore di numerosi libri sulla materia tra cui il fortunato “Il fallimento dell’Islam politico” (1996).

Olivier Roy
Recentemente è stato a Milano per il convegno “Il Medio Oriente che cambia” organizzato dal benemerito Cipmo (Centro italiano per la pace in Medio Oriente), di cui è direttore Janiki Cingoli, dove ha partecipato al panel sulla “Ristrutturazione dei rapporti internazionali”. Tema cruciale per un’area sconvolta dalla comparsa sulla scena dello Stato Islamico che, di fatto, ha cancellato frontiere vecchie di un secolo.

Olivier Roy, si può vincere la guerra contro lo Stato Islamico?
«Sì. Ci sono due aspetti fondamentali se si analizza l’Isis. All’inizio aveva preso la stessa direzione di Osama bin Laden, la stessa prospettiva di al-Qaeda: volontari da tutto il mondo che si ritrovano in nome di una comune causa. Ma poi, a differenza di al-Qaeda, si è insediato in un territorio preciso perché c’è una popolazione che ne ha bisogno: quella sunnita. In tutto il Medioriente, oggi, non c’è uno Stato arabo sunnita e non succedeva da quasi un secolo. La Siria è alauita, l’Iran e l’Iraq sono sciiti, il Libano è cristiano e sciita».

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2/12/2014
Pur se in Africa non dimentica l’Egitto, professore? Per importanza strategica siamo abituati ad associarlo al Medio Oriente.
«Dopo il colpo di Stato militare, l’Egitto non è più nemmeno strategicamente mediorientale, ripiegato com’è sui suoi problemi interni. Dopo la caduta dell’Impero ottomano i sunniti avevano potere in Iraq, in Giordania, prima del 1948 anche in Palestina. Ora hanno solo il Golfo e la Giordania. Niente o quasi. Ecco perché la popolazione ha accolto l’Isis: l’ha visto come un movimento che la capacità militare di ricreare uno spazio arabo-sunnita nella regione».

Pare chiaro che, dopo il suo arrivo, niente sarà più lo stesso, a partire dalle frontiere.
«Si torna a redistribuire le carte. Come, non so. So che l’Isis non ha una prospettiva nazionalista ma internazionalista. Vuole il califfato globale, altro che frontiere tra Baghdad e Damasco. Un progetto delirante, naturalmente, concepito da una leadership che non media, non tratta, semplicemente uccide. Chi se lo trova davanti non ha altra scelta se non combattere. Ha mai proposto ai curdi un negoziato su Kobane? No».

Quale forza militare sarebbe necessaria per neutralizzare Abu Bakr al-Baghdadi?
«Penso che dobbiamo limitarci, in questa fase, a contenere la sua avanzata. E aspettare. Perché lo Stato islamico crollerà dall’interno. La popolazione si ribellerà alle vessazioni loro imposte soprattutto dai volontari stranieri, i più fanatici».

Quanto tempo ci vorrà?
«Un anno, grosso modo».

Poi?
«Poi qualcuno sostituirà il sedicente califfo e si metterà alla guida della popolazione sunnita per ridisegnare i poteri».

Nel frattempo lo Stato Islamico c’è. E molti si chiedono come mai combatta i cristiani, gli yazidi ma non Israele.
«Non è strano. È un’illusione ottica pensare che Israele sia un grande problema per il mondo arabo. Non è così, è finita. Il nazionalismo arabo si era costruito contro Israele, non l’islamismo. Al Qaeda non ha mai combattuto Israele, i salafiti nemmeno. E per Daesh (lo Stato Islamico in arabo, ndr.) è un tema trascurabile. Semplicemente pensano che se costruiranno il califfato di conseguenza Israele non ci sarà più».

In attesa del collasso, cosa deve fare l’Occidente.
«Non deve fare una guerra. Non deve inviare truppe come in Afghanistan e Iraq, coi risultati che abbiamo visto. Bisogna aiutare gli eserciti locali. Non ci saranno soluzioni se non politiche e non saranno gli americani a decidere le nuove frontiere».

E chi lo farà?
«Tutto quanto sta succedendo è il frutto della rivalità tra Teheran e Riyad. L’Arabia Saudita sta rimpiazzando l’Egitto come faro del campo sunnita. Teheran da decenni non era un fattore decisivo e oggi è il punto di riferimento per gli sciiti. Ma sarebbe sbagliato pensare a una rivalità religiosa. La religione è solo il pretesto. Il tema è la supremazia. L’Iran ha giocato meglio le sue carte sinora. Grazie agli americani ha potenziato la sua influenza in Iraq, in Siria sostiene Assad che resta saldo al potere, in Libano sta con Hezbollah e non c’è Libano senza Hezbollah. Sull’altro versante invece l’Arabia Saudita ha contribuito a dividere il fronte delegittimando i Fratelli musulmani che, piaccia o no, sono una forza importante. Se si combattono i democratici e i Fratelli musulmani cosa resta nel campo arabo-sunnita? Solo gli estremisti radicali».

Spettatore interessato è la Turchia.
«Sul breve periodo ha due obiettivi, la Turchia. La caduta del regime di Bashar Assad, Erdogan ne ha fatto quasi una questione personale. E impedire che i curdi siriani creino uno Stato indipendente perché sono vicini al Pkk».

Certo, se intervenisse militarmente la Turchia...
«Sconfiggerebbe l’Isis ma pagherebbe un prezzo alto e aspetta quanto già detto: il collasso dall’interno».

Qual è la vera forza militare a disposizione del califfo?
«Ha le armi lasciate dagli americani e ha recuperato i quadri militari di Saddam che si adattano non per motivi religiosi ma nazionalistici. E poi c’è il corpo di spedizione straniero. Ceceni, tunisini ecc. Migliaia di europei, anche convertiti. Più di 2.000 francesi, 400 belgi, italiani, recentemente hanno scoperto persino dei portoghesi».

Secono alcuni si potrebbe usare l’esercito iraniano contro il califfato.
«Ipotesi improbabile. A meno che sia minacciata Baghdad: gli ayatollah non potrebbero permettere la sua caduta».

Ci si chiede anche come mai non ci sia una reazione della cosiddetta “arab street” all’orrore suscitato dalle teste mozzate.
«Non esiste più la “arab street”. Gli israeliani hanno bombardato Gaza in estate e non c’è stata nessuna manifestazione a Casablanca, a Tunisi o al Cairo dove nel passato, in casi analoghi, erano milioni. Perché? Perché dopo la primavera araba non esiste più il panarabismo e la vita politica è piegata sulle questioni nazionali».

Perché i giovani, anche europei, sono così affascinati dalla violenza?
«Per una sorta di nichilismo generazionale, non credo più alla storia della perdita d’identità che fa abbracciare l’estremismo. Non c’è differenza tra le decapitazioni dell’Isis e quelle dei narcos messicani. In Occidente, nei Paesi protestanti soprattutto, non passa settimana senza che un giovane si filmi mentre entra in un luogo pubblico e uccide per poi uccidersi. Da un lato l’ideologia, dall’altro l’indivualismo producono lo stesso effetto: violenza e morte».

Professore, se davvero lo Stato Islamico collasserà, che ne sarà delle migliaia di persone che hanno seguito il califfo?
«Torneranno da al-Qaeda. È la storia di al-Qaeda che non è ancora finita come spesso si tende a credere».