La passione per i giornali, per i libri, per la politica. Il fondatore dell’Espresso e di Repubblica raccontato da un intellettuale diverso da lui

Narrare e interpretare un’amicizia è sempre bello e buono. Scrive infatti il Grande Saggio: «L’amicizia è una virtù o s’accompagna alla virtù; inoltre essa è cosa necessarissima alla vita». Se questo, ripeto, è sempre vero, assume un rilievo particolare quando all’origine i due eventuali soggetti dell’amicizia risultano contraddistinti - e per certi versi tali sono destinati a restare - da differenze profonde, politiche, culturali, ideologiche, di stili di vita e persino di orizzonti esistenziali. Questo è il caso - mi pare di poter dire - mio e di Eugenio Scalfari. Cogliere l’occasione del suo novantesimo compleanno (il 6 aprile) per spiegare perché e come siamo stati, e siamo, molto amici, potrebbe avere un qualche senso per tutti. Di sicuro ce l’ha per me. Spero che ce l’abbia per Eugenio. Per saperlo, comunque, bisogna osare. Solo alla fine sapremo se ne è valsa la pena (ma io, ripeto, penso di sì).

Per comodità dividerò il racconto in tre capitoli, con una conclusione che arriva fino ai nostri tempi, anzi ai nostri giorni.

1 Ho conosciuto Eugenio Scalfari (di persona, s’intende, come figura pubblica era universalmente noto da tempo), all’inizio degli anni Ottanta. Eugenio era allora impegnato nel trionfale decollo del suo principale (giornalisticamente parlando) cavallo di battaglia, il quotidiano “la Repubblica”, da lui fondato pochi anni prima (1976). Io venivo da un periodo di disillusioni e di scoramento, culminato nel 1980 nelle mie dimissioni dalla Camera dei deputati, dove ero stato eletto solo l’anno prima nelle liste del Pci. Non importa sapere se la mia collaborazione a “la Repubblica”, progettata e realizzata fra il 1983 e il 1984, discendesse da un’offerta del Direttore Scalfari o da una mia proposta autoriale. Fatto sta che, fra il 1984 e il 1989, la mia collaborazione al giornale di Scalfari fu frequente, impegnata e appassionata, sia sulle pagine culturali sia - soprattutto, direi, in quel momento - su quelle politiche.

C’era un punto sul quale in quegli anni le nostre diverse prospettive convergevano. Questo punto era rappresentato dalla fondatissima persuasione che il Pci non potesse proseguire il suo cammino come forza politica (auspicabilmente) decisiva in Italia senza operare una profonda rivoluzione delle sue strutture, cultura politica, orientamenti ideali. Questo orientamento venne perseguito sia prima sia soprattutto dopo la scomparsa di Enrico Berlinguer, quando alla Segreteria gli subentrò una persona rispettabilissima come Alessandro Natta, ma inequivocabilmente di transizione. Per farmi meglio capire, cito soltanto i titoli di miei tre articoli nel merito: “Il partito riformatore” (aprile 1984); “Il cavallo occidentale e la giraffa comunista” (settembre 1984); “Se la giraffa diventa cavallo” (marzo 1985).

Ovviamente tutto il giornale, a partire in primo luogo dal suo Direttore, si muoveva in questa direzione. Ma Scalfari sembrava tenere a che quel discorso, insieme con altri, lo facessi io. La collaborazione, espressa prevalentemente, com’è ovvio, sotto forma di articoli scritti e stampati, si estendeva però al dominio meraviglioso della conversazione. Vedevo spesso Eugenio nella sua stanza di Direzione nell’edificio all’angolo tra Via dei Mille e Piazza Indipendenza. Ho così potuto - allora - scoprire che per lui il rapporto intellettuale o politico sfocia pressoché inevitabilmente - certo quando lui ritiene che ne valga la pena - in quello degli affetti.

Forse è proprio per quest’ultimo motivo - e cioè che, rovesciando l’ordine dei rapporti, quello affettivo influisce, sia positivamente sia negativamente, su quello intellettuale o politico - che quando Occhetto compie la “svolta” (novembre 1989), Eugenio e io ci dividiamo proprio su quello che sembrava il compimento del nostro comune disegno precedente. Come mai? Eugenio pensa che la “svolta” occhettiana rappresenti il passaggio obbligato e necessario a quella integrale e definitiva democratizzazione del Pci, considerata (come dirò meglio più avanti) un tassello decisivo per la costruzione di una compiuta democrazia italiana. Io penso fin dall’inizio che le modalità con cui l’operazione è compiuta (la difesa della parola e dell’identità comunista è per me anche in quel momento di difficilissimo e doloroso passaggio del tutto fuori causa) condurranno a una catastrofe.

Naturalmente non si tratta qui di riaprire, neanche nei termini più generali, una discussione su chi dei due avesse (più) ragione. Il dato di fatto è che, forse per quell’intreccio tra affetti e persuasioni intellettuali cui accennavo, in quel momento per tutti incredibilmente rovente i nostri rapporti s’interrompono e, come dire, per qualche anno restano sopiti.

2 Vorrei allargare il discorso. L’amicizia, soprattutto fra diversi, nasce spesso se uno dei due ha qualche motivo di ammirazione per l’altro. Io ammiro molto la coerenza; la linearità dei comportamenti; la forza non prevaricatrice con cui si difendono le proprie opinioni. Ora, io qui - desidero precisarlo - sto cercando di tracciare un ritratto a tutto tondo di Eugenio Scalfari. Sto cercando di spiegare perché provo una grande amicizia per lui. L’ammirazione, come l’amicizia - e come l’amore - nascono sempre dentro un contesto. Il contesto, almeno per noi due, è l’Italia contemporanea, l’Italia contemporanea degli ultimi cinquanta-sessant’anni, come lui e io l’abbiamo vissuta (il fatto di avere circa dieci anni di meno non mi ha impedito di seguire passo passo più o meno le stesse vicende, sia pure, come dicevo, da angolazioni diverse).

Ebbene, io osservo questo. In un Paese incredibilmente debole, spesso rinunciatario, poco coraggioso, straordinariamente frastagliato e alla fine - si veda l’oggi - quasi sull’orlo del fallimento, Eugenio ha perseguito con incredibile energia e una forza intellettuale e vitale assolutamente eccezionale una battaglia inesausta per riuscire a fare dell’Italia un Paese democraticamente maturo, rispettoso delle regole, fermo sui principi, operoso e civile, e in definitiva, puramente e semplicemente, un Paese normale, almeno secondo il canone democratico occidentale. Ecco: l’ispirazione liberaldemocratica (so di dire una cosa che probabilmente non piacerà a molti, sia da una parte sia dall’altra), che altrove avrebbe avuto una cittadinanza pressoché scontata e come tale guardata e praticata, in questo contesto smette di essere un’ideologia pura e semplice del sistema, che pure è il suo, e funziona invece come un’istanza dissacrante e antagonistica, rema contro corrente con una determinazione che attraversa tutta la sua vita e ancora oggi opera nella pienezza delle proprie energie.

Probabilmente non ce ne sarebbe bisogno per i lettori di questo periodico, ma vorrei richiamare qui i punti salienti di questa battaglia scalfariana. Concettualmente: la difesa intransigente della Costituzione; il rispetto quasi religioso delle istituzioni; l’appello alle forze selvagge del capitalismo perché accettino anch’esse di rispettare, nella legittima ricerca dei propri interessi, i limiti e le regole della vita repubblicana associata; la distinzione basilare fra conquista del potere da parte dei partiti e occupazione e sfruttamento delle istituzioni da parte loro. Politicamente: la lotta senza riserve e senza cedimenti a tutte le deformazioni della macchina democratica e al suo pervertimento in funzione populistica e personalistica: Craxi e il craxismo, Berlusconi e il berlusconismo, l’imputridimento criminale della politica (l’appoggio incondizionato a Mani Pulite ne rappresentò per lui uno dei risvolti più positivi). Anche la sua attuale diffidenza, e profonda diversità, più volte espresse, nei confronti di Matteo Renzi e del renzismo, vanno fatte rientrare sul conto di questo versante del suo pensiero.
Questa ammirazione per me è sempre stata in atto, ma recentemente, nel corso dell’ultimo decennio, s’è ancor più accresciuta e ha trovato nuovo alimento nella forza e lucidità veramente incredibili con cui Eugenio ha continuato a esercitare la sua critica liberaldemocratica della società capitalistica di massa, ormai malata, a quanto pare, nelle sue stesse componenti fondamentali.

3 L’ammirazione, tuttavia, è solo la fonte più appariscente dell’amicizia. Ne esiste una più segreta, fatta di sentimenti, passioni, idiosincrasie e persino, se si può dir così, di sincronici trasalimenti, che nei casi migliori si fonde con la prima, e tutto sommato, la invera e giustifica. Tuttavia, come si può capire, è molto più difficile parlarne. Mi limiterò a dire che io, a parte le frequentazioni personali sempre più assidue, ho imparato a scoprirla e a riscoprirla nei suoi libri “colti” e “filosofici” dell’ultimo ventennio (non solo, ma soprattutto, “Incontro con io”, 1994; “Alla ricerca della morale perduta”, 1995; “L’uomo che non credeva in Dio”, 2008; “Per l’alto mare aperto”, 2010). Come mai? Quando li studiavo, per sistemarli all’interno del volume dei “Meridiani” mondadoriani, da me curato (2012), che tutti li comprende, rimasi colpito dal fatto che il discorso precipuamente storico-culturale e analitico-filosofico, che Eugenio vi svolgeva, fosse puntualmente accompagnato da una vera e propria cascata di reazioni emotive e sentimentali, che in qualche modo profondamente lo giustificava, e al tempo stesso lo rendeva più facilmente comunicabile e condivisibile, ossia perfettamente umano. Non c’era soltanto da seguire e mettere in comune, o al caso guardare con attitudine critica, gli enunciati interpretativi riguardanti di volta in volta l’amato Montaigne, o Diderot, o Tocqueville, o Nietzsche, o Marx, ecc. ecc. C’era la possibilità di seguire, attraverso gli autori richiamati e da lui interpretati, un percorso autoriale autonomo e vitale, di cui condividere in un certo senso non solo l’esperienza intellettuale, ma anche quella esistenziale, insomma autobiografica nel senso più pieno del termine.

C’è vera amicizia quando l’ammirazione diviene condivisione, comunanza, apprezzamento dello sforzo compiuto per essere non soltanto maestro di giustizia e di civiltà, ma anche (come diceva uno dei nostri più innominabili maestri) “umano”, persino “troppo umano” (non a caso, per dirla tutta, “un libro per spiriti liberi”...). Le difese allora si abbassano, lo sforzo della persuasione si allenta, sopraggiunge - e prevale - la forza inconfondibile del disincanto: io sono questo, giudicatemi per quello che sono, non devo persuadervi, mi basta che sappiate che ci sono stato, che ci sono, e sono questo...

Mi rendo conto che, andando verso le conclusioni, tiro sempre più Eugenio dalla mia parte. Del resto, che amicizia sarebbe, se non ci fosse fra i due che la praticano una certa dose di tensione reciprocamente metamorfosica? Però desidero precisarlo: di qui in poi io parlo soprattutto di me, se mi associo Eugenio è per eccesso di condivisione e di affetto. Dunque, per concludere: io sento soffiare intorno a noi due - intorno a noi due, s’intende, come intorno, a molti altri - il venticello dolceamaro della sconfitta. Sconfitta, in quale senso? In questo, penso: il grande, autentico, formidabile atletico campione del pensiero liberaldemocratico, vive, pensa, combatte in un Paese dove, se un poco e per un po’ c’è stata, non c’è più una borghesia, e vede oggi il suo partito politico di più diretto riferimento nelle mani di un signore diligentemente e perfettamente allevato dal mondo degli scout; e il (presunto, preteso, talvolta infantilmente compiaciuto) intellettuale e pensatore antagonistico vive, pensa, combatte in un Paese dove, se un poco e per un po’ c’è stata, non c’è più una classe operaia, e vede oggi il suo partito politico di più diretto riferimento nelle mani di un signore diligentemente e perfettamente allevato dal mondo degli scout. C’è n’è abbastanza per stare, nei lunghi anni a venire, sempre più concordi, vicini, amici.

Del resto, il venticello dolceamaro della sconfitta non è così deprecabile come in astratto si potrebbe pensare (appunto, non è solo amaro, è anche dolce). Ho scritto recentemente che oltre gli ottanta (figuriamoci dopo i novanta) la libertà di pensiero - se c’era anche prima, ovviamente - diviene totale: non c’è più niente da cambiare, si può solo pensare. La sconfitta - grande, completa, irrimediabile, oppure solo parziale o solo presunta - aumenta a dismisura la libertà del pensiero, la rende sistematica, operosa, in qualche modo persino felice. Non si può più cambiare, si può solo pensare. Solo pensare - io penso - è più felice che pensare per cambiare. Non so se venga dall’età o dalla sconfitta, certo è che le cose scritte (oltre che dette) negli ultimi anni da Eugenio Scalfari, compresi gli ultimi articoli, compreso l’ultimissimo, quello di domenica scorsa, sono incredibilmente ben pensate, persuasive, libere e perciò felici.

Il Grande Saggio, il più grande che mai ci sia stato, osserva, con parole che sembrano scritte per noi, che «ai giovani l’amicizia è di aiuto per non errare, ai vecchi per assistenza e per la loro insufficienza ad agire a causa delle loro debolezze, a quelli che sono nel pieno delle forze per le belle azioni». E aggiunge, chiamando in soccorso il Grande Poeta, il più grande che mai ci sia stato (poiché dove il pensiero non arriva, arriva la poesia): «“Due persone che insieme vanno”, e così sono più capaci a pensare e ad agire». Ecco, se potessi, sceglierei questa immagine per definire la nostra amicizia: insieme (e naturalmente anche in questo caso la riflessione riguarda molto più me che lui) siamo stati più capaci a pensare e ad agire. Niente, però, in confronto a quel che accadrà in futuro.