Si chiama Geico e produce impianti per verniciare le auto. Il presidente ha una filosofia tutta sua. Vuole fare felici i suoi dipendenti. Come? Con un teatro e una palestra. Ma anche ripagandoli (di tasca sua) l'unica volta in cui è stato costretto a ricorrere agli ammortizzatori sociali

Più che una fabbrica sembra il set di un Truman Show dove i personaggi stanno tutti dalla parte dei buoni. Mai un conflitto, mai un licenziamento in oltre cinquant’anni di storia. Produttività da record, un’efficienza stile Nord Europa, tra vetrate, tappeti e design. E un laboratorio di ricerca così moderno che sembra di essere in una base Nasa.

Nella sede della Geico, a Cinisello Balsamo, i sindacati sono intervenuti una volta sola. Era il 2009, in piena recessione mondiale e i sindacalisti erano lì per convincere il riluttante Alì Reza Arabnia, presidente e amministratore delegato, a far ricorso alla cassa integrazione. Geico produce impianti tecnologici avanzati per la verniciatura delle scocche. E tutti, a Cinisello, sanno indicarti dov’è. Non tanto perché il comune non è una metropoli, pur essendo con i suoi 74 mila abitanti il terzo della provincia di Milano. O perché l’azionista di riferimento dell’azienda, con il 51 per cento delle quote, è un colosso da quasi due miliardi di euro di giro d’affari come Taikisha, multinazionale giapponese delle macchine utensili per il settore auto.

Alì Reza Arabnia

Piuttosto perché Arabnia, imprenditore di origini iraniane (è nato in una facoltosa famiglia di Teheran), studi tra college inglesi e università statunitensi, ha una idea tutta sua d’impresa. «La cassa integrazione? Una parola blasfema. Se per il mio personale devo scegliere tra tagli e protezione», dice, «scelgo sempre quest’ultima. E non è che voglio far vivere i miei dipendenti sotto a una campana di vetro, voglio solo farli stare bene». Cinque anni fa, con il mercato dell’auto paralizzato, alla fine fu costretto a ripiegare sugli ammortizzatori sociali. Dopo, però, sentì l’obbligo di ripagare la fetta di stipendio persa dai suoi ingegneri, tecnici, operai e impiegati: gli costò, di tasca sua («Non mi va di essere generoso con i soldi degli altri», sostiene), quasi 2 milioni di euro.

Poi, come per non tradire la convinzione che il successo di un’azienda è dato dalla capacità«di essere leader e non padroni, di non scatenare competizioni tra i sottoposti per non distruggere intelligenze», ha costruito per i 120 dipendenti di Cinisello - gli altri 78 sono tra Cina, Brasile e Russia - un centro polivalente. Una specie di resort di lusso nell’area industriale. È attaccato allo stabilimento, gli è costato 11 milioni. Comprende palestra, ristorante, bistrot, teatro, una sala per le mostre, un’area relax tra piante, panchine e divani per cene e feste, a disposizione delle maestranze e delle loro famiglie. Il sindaco gli manda in visita le scolaresche, il teatro ospita spettacoli, le case automobilistiche che Geico rifornisce - da Fiat a Honda a Bmw - sono piombate a Cinisello per vedere da vicino il modello Arabnia. Adesso Satoru Kamiyama, il presidente di Taikisha che gli ha dato carta bianca, vorrebbe replicarlo in Giappone.
Non che questo industriale dai modi cortesi sia semplicemente un milionario filantropo. O un imprenditore con una concezione paternalistica dei rapporti con gli operai. «Non sono un marziano. Un’impresa non deve puntare solo al profitto, deve assumersi anche una responsabilità sociale. Chi ha avuto il dono o la fortuna di raggiungere risultati ha un dovere verso la collettività», dice. Una certezza che ne ha fatto un testimonial richiestissimo dagli atenei di mezzo mondo, dalla Bocconi all’Università di San Diego, in California, da dove - quasi trent’anni fa, oggi ne ha 58 - è uscito con una laurea a pieni voti.
Geico si è già messa alle spalle la crisi: quando tutto era fermo ha scommesso su tecnologia e formazione dei dipendenti. Oggi fattura 140 milioni, ha aumentato la redditività del 60 per cento, vernicia auto praticamente in ogni angolo del globo. Tutto è iniziato da un incontro, quello tra Arabnia e la moglie Laura Neri (insieme possiedono il 49 per cento di Geico), figlia del fondatore dell’azienda, che nel 1996 aveva venduto il pacchetto di maggioranza alla Fiat. Un matrimonio, quello con la casa torinese, di breve durata. Quattro anni e già mostrava la corda, con l’azienda che continuava a perdere terreno, «un management che forse sapeva fare buone analisi», ricorda Arabnia, «ma non conosceva il settore», fino a rendere inevitabile il divorzio, poco dopo l’entrata in scena di Sergio Marchionne.
Riacquisito il controllo della Geico, per la famiglia di Arabnia passeranno altri sei anni prima dell’accordo con Taikisha. I giapponesi, che hanno la forza delle dimensioni, mettono le mani su un’azienda che nel frattempo è diventata un caso di scuola d’innovazione. Gli ultimi anni sono quelli dell’espansione all’estero. Si sviluppa in India, Cina, Marocco, poi acquista sei società di engineering, dalla Russia al Regno Unito. A Pernambuco, in Brasile, si aggiudica la commessa del nuovo impianto Fiat, poi è la volta, sempre nel Paese sudamericano, della Ford, a Camacarì: 50 mila scocche l’anno, un contratto da 60 milioni di euro. Nel maggio dello scorso anno, il nuovo quartiere generale di Cinisello, 14 mila metri quadrati. Poi, il centro polivalente per i dipendenti, altri duemila metri. Arabnia ancora una volta tira fuori i soldi dalle sue tasche, lo chiama “Il giardino di Laura” (omaggio alla moglie) e lo apre alla città. Il Comune lo sceglie per le opere del Museo di fotografia, il sindaco Siria Trezzi stende tappeti rossi. Seguono reportage sull’impatto in Brasile delle infrastrutture per i mondiali e le Olimpiadi, esposizioni di artisti disabili, spettacoli teatrali sulla Shoah, lezioni sulla storia del cinema.
Arabnia ha i suoi riferimenti e i suoi obiettivi. Dice che un capitano d’industria deve chiedersi se la sua azienda ha una missione che lui stesso condivide e che l’arroganza «è devastante per gli ambienti di lavoro: crea darwinismo sociale». E che, alla fine, tutto ruota intorno all’etica. Quanto ai manager pagati a peso d’oro, «molti sono semplicemente sopravvalutati». n