Nei mesi che hanno preceduto le Europee è stato il leitmotiv di molti confronti elettorali. Ma la cattiva abitudine di scaricare la colpa dei nostri mali a ipotetici complotti è ben radicata nella cultura politica del Paese. Ecco perché 

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«Come sei andato in rovina?» «In due modi: prima piano, poi tutto d’un colpo». È una frase di Ernest Hemingway e serve a introdurre il complesso più amato e praticato dagli italiani: il complesso del complotto. Tutti noi infatti facciamo a gara a dimenticarci il «piano piano» e a concentrarci sul «tutto d’un colpo», Il perché è semplice. Il «piano piano» ci chiama in causa direttamente: mette sotto accusa la nostra incapacità a prendere atto per tempo delle cose, a criticarci per cambiare. Il «tutto d’un colpo» ci assolve e nello stesso tempo dà la colpa agli altri: il complotto, appunto.


Proprio perché solletica l’autoindulgenza il complotto 'vende' ed è quindi molto usato da giornalisti e politici in decadenza. Un corpulento esponente anglo-italofono dei primi (Alan Friedman) e un brevilineo ex ministro del tesoro statunitense (Timothy Geithner) hanno contribuito a ricordarcelo di recente. Alan Friedman ha cercato di convincerci di aver fatto uno scoop, rivelando che nell’estate del 2011 erano in corso colloqui ad alto livello (Mario Monti, Giorgio Napolitano) per preparare alternative al governo Berlusconi allora in carica. Ma il vero scoop sarebbe stato la scoperta del contrario: che Napolitano e Monti non avessero fatto tutto quanto era in proprio potere (e dovere) per cercare soluzioni all’avvitamento di una crisi che pareva senza vie d’uscita. Timothy Geithner cede a un facile (negli Usa) antieuropeismo di maniera ricordando come nello stesso lasso di tempo non meglio precisati «officials» dell’Unione Europea (termine che comprende dall’ultimo usciere di Strasburgo al presidente) lo avessero contattato per contribuire a far cadere Berlusconi. In cosa potesse consistere il contributo, questo Geithner si dimentica di dircelo.


La realtà è sotto gli occhi di tutti (almeno di quelli con un po’ di memoria). Il lento declino di Berlusconi è un «piano piano» che dura quasi vent’anni e si condensa nella sua incapacità (non volontà?) di fare davvero la rivoluzione liberale: privatizzare, ridurre la presenza dello Stato e le dimensioni della pubblica amministrazione, ripristinare la libera concorrenza e la meritocrazia. Per dimenticare tutto ciò ci si concentra sull’atto finale, che in sé rappresenta la semplice constatazione di un fatto ormai avvenuto.


Spesso basta guardare ai dettagli per smontare l’idea affascinante del complotto. Nell’estate 2011 la Banca centrale europea invia una lettera riservata al governo italiano elencando le possibili cose da fare per rimediare alla situazione. Non è una novità: lo fa spesso nelle emergenze e proprio perché rispetta l’autonomia dei governi nazionali (forse anche troppo) lo fa in modo non pubblico: per lasciar libero un esecutivo di prendere le decisioni che ritiene senza metterlo di fronte a un aut aut. Cosa fa Berlusconi? Rende pubblica la lettera. Solita piccola furbizia da italiani: non è colpa nostra, vedete? È la Merkel cattiva che ci obbliga all’austerità. Ma in Europa il gesto viene interpretato (giustamente) come la definitiva dimostrazione che il governo italiano di tutto ha voglia meno che di mettersi seriamente a risolvere i problemi o perlomeno di discuterne altrettanto seriamente. Di qui le risatine tra Nicolas Sarkozy e Angela Merkel quando gli chiedono cosa pensano dell’Italia, di qui l’agitarsi di Napolitano per cercare altre soluzioni.
Angela Merkel con Nicolas Sarkozy


Badate però che l’idea del complotto fa comodo a tutti. Chi di noi non preferisce dare la colpa alla solita Germania ottusa e ligia alle regole invece che ammettere di avere un debito pubblico enorme, tasse troppo alte (ma pagate solo da alcuni), una burocrazia lenta e ostruzionistica? Se non cresciamo la colpa è di queste palle al piede che ci trasciniamo dietro da decenni, non del limite del tre per cento al rapporto tra deficit e PIL: è una banalità, ma paradossalmente assai più debole per i nostri orecchi della vecchia, cara teoria del complotto. La colpa è sempre degli altri. Se ci si pensa bene, l’idea del complotto è sempre conservatrice: legittima e riproduce quello che eravamo prima del complotto, per tornare ad esserlo senza critiche né cambiamenti.

Il problema è che nella storia umana i complotti non esistono. O meglio: ne esistono troppi. Ed è veramente raro trovare il Grande Vecchio, il Burattinaio che tira le fila di tutto. Nell’antica Roma, nemmeno i congiurati che uccisero Cesare si trovarono d’accordo tra loro sul cosa fare dopo. Figurarsi oggi che le società sono diventate più complesse e articolate. Prendete gli anni Settanta e i tanti misteri della storia d’Italia, da Piazza Fontana a Moro. Le parziali verità storiche che siamo riusciti a ricostruire ci parlano di un «piano piano» (una democrazia in crisi e rimasta sola in tutto il fronte sud della Nato, controllato da giunte militari da Lisbona fino ad Ankara) e di una serie di tentati «tutti d’un colpo», dove a mettere le mani sono sempre troppi aspiranti burattinai.

Anarchici ondeggianti, brigatisti rossi, servizi segreti stranieri (se ne contano fino a 33 allora in attività sul nostro suolo nazionale), neofascisti in cerca del golpe, servizi segreti italiani contagiati (o da sempre infettati) dallo stesso desiderio, mafia. Bombe per convincere il governo a varare lo stato d’assedio. Bombe per ricordargli quel patto. Attentati per convincere le masse a fare la rivoluzione. Sarebbe molto comodo per gli storici se si potesse far risalire tutto quel sangue a un unica mente malata. Invece gli orchi sono tanti e i loro complotti si sovrappongono, si intrecciano, si confondono.


Colui che potrebbe assomigliare di più alla maschera del burattinaio – Giulio Andreotti – è in realtà più che altro il punto di contatto, talvolta casuale, talvolta intenzionale, tra tutti questi piccoli complottisti. Dotato di una grande abilità nel non farsene mai schiacciare (ma le morti fisiche e giudiziarie, da quella di Salvo Lima a Vitalone, arrivano spesso a sfiorarlo) né coinvolgere più di tanto (il reato di concorso esterno in associazione mafiosa rimane indimostrato) ma sprovvisto del potere di far rientrare tutto in un unico disegno. E tuttavia il miracolo di essere rimasti una democrazia passando attraverso il verminaio di quegli anni, lo si deve anche (non soprattutto, ma anche) a lui.

Giulio Andreotti

Franco De Felice ha sintetizzato quel periodo in una formula ? «doppia lealtà, doppio Stato» ? volendo significare che ogni politico italiano appartenuto al tempo della Guerra Fredda ha sempre seguito una doppia logica: quella della democrazia italiana e quella dell’appartenenza a uno dei due blocchi contrapposti americano e sovietico. Spesso la seconda contraddiceva e sopraffaceva la prima, andando oltre i limiti del consentito.


Agli italiani rimane così un’impressione tenace di fondo, un'abitudine mentale che i media chiamano «dietrologia»: i politici non ci dicono tutta la verità, anzi quello che dicono serve a coprire qualcosa di altro e di inconfessabile. «Dietro» ogni cosa se ne nasconde un’altra, tutta diversa, che solo pochi privilegiati conoscono. Sono quei pochi a governare il mondo. In un classico della sociologia moderna – La personalità autoritaria (1950) – Theodor Adorno parla della «proiettività». È l’idea che nel mondo esterno (che non conosco né voglio conoscere perché non amo viaggiare e preferisco restare dentro le mura di casa mia) sia al lavoro un costante complotto per minacciare la mia tranquillità. Adorno non lo scrive, ma ancora oggi (non solo) nel mondo islamico molti credono ai Protocolli dei Savi di Sion: un falso opuscolo fabbricato dalla polizia segreta zarista nell’Ottocento che immagina la congiura degli ebrei per dominare il mondo.


Potrà sembrare strano, ma la forza dell’idea del complotto appartiene al mondo ancestrale delle fiabe, dal quale attingono tutte le grandi ideologie moderne. Il mondo si divide in buoni e cattivi. Basta sconfiggere il capo dei cattivi e il mondo diventa bello: «e tutti vissero felici e contenti». Un grande e potente riduttore della complessità: ecco a cosa serve l’ideologia del complotto. Ecco dove risiede la sua forza universale di convincimento. Purtroppo la complessità è la nostra condizione naturale di esseri viventi: ogni giornata si incarica di ricordarci che la vita è diversa, purtroppo, dalle fiabe. Che i cattivi non li puoi ammazzare con una spada magica. E che anche quando riesci ad eliminarli o neutralizzarli, i problemi non scompaiono per incanto. Ecco perché bisogna sempre diffidare di chi dice: la colpa è tutta e soltanto di loro, diamogli addosso. Nove volte su dieci mente, sapendo di mentire (ogni riferimento a Beppe Grillo non è casuale) perché utilizza il riduttore fiabesco della complessità. Prende una parte della verità – perché un po’ di ragione ce l’ha, questo non va mai scordato – ma la ingigantisce per nascondere cosa vuole fare al posto dei cattivi, una volta che li ha tolti di mezzo. Perché il difficile sta proprio lì: nell’immaginare cosa fare di diverso dai cattivi. Per immaginare, infatti, prima bisogna cercare di capire come è la realtà (complessa) per davvero. Senza scorciatoie.