Nel più grave incidente della storia ferroviaria italiana morirono 32 persone. Sotto accusa per omicidio e incendio colposo 9 società e 33 persone compresi i manager del gruppo FS. La battaglia delle associazioni per la verità

Cinque anni fa, il 29 giugno 2009, alle 23:50, un treno carico di gpl deragliava alla stazione di Viareggio (Lucca). Da una cisterna squarciata fuoriuscì il gas che innescò un'esplosione. Le fiamme inglobarono strade e case vicine alla ferrovia. Le persone bruciarono nei propri letti. Alla fine i morti furono 32. Tra questi 4 minori e 4 ventenni. Altri sono rimasti ustionati a vita. Un anziano, non aggiunto alla lista ufficiale dei decessi, è morto d'infarto.

L'incidente
Un treno composto da 14 cisterne cariche di gas propano liquido entra alla stazione di Viareggio a 90 km all'ora – nei limiti di 100 - intorno alle 23:50. Viaggia in direzione nord-sud: partito da Trecate (Novara), è diretto a Gricignano (Caserta). Ma un asse sotto a un vagone si frattura, la cisterna deraglia, si rovescia. Come se non bastasse qualcosa la squarcia. I macchinisti riescono a fermare il convoglio e a dare l'allarme fuggendo a gambe levate: hanno già capito cosa sta per accadere. Il gpl azzurrino si allarga, esce dai binari, raggiunge le case. Poi l'esplosione. Due anziani muoiono d'infarto per la paura. Intanto le fiamme inghiottono strade e vie. Bruciano i pini e le auto e le ambulanze della vicina Croce Verde. Persone, come torce, si riversano in strada.
I numeri
La mappa degli incidenti ferroviari
27/6/2014

Le vittime
Rosario Campo, 42 anni, falegname, fu polverizzato mentre passava in motorino a 300 metri dalla stazione. Lo stesso è accaduto ad Antonio Farnocchia, 51 anni, che camminava sulla passerella sopra i binari per andare al lavoro. Era panettiere e padre di due figli. Le fiamme hanno sterminato intere famiglie in un colpo solo: gli sposi Elena Iacopini e Federico Battistini, 32 anni, e i genitori di lei, Emanuela Milazzo, 63, e Mauro, 60. Sara Orsi, 24 anni, giocava a carte sul letto con l'amica e collega Emanuela Menichetti, 21 anni (insieme avevano aperto un'agenzia immobiliare) quando arrivò l'esplosione, che portò via anche la madre di Sara, Roberta Calzoni, 54 anni. Luca Piagentini, 4 anni, è morto carbonizzato in auto, dove i genitori l'avevano messo per fuggire. Con lui non ce l'hanno fatta il fratello Lorenzo, 17 mesi, e la mamma Stefania Maccioni, 40 anni. Solo il primogenito Leonardo, oggi 13 anni, è rimasto illeso, protetto da un materasso che gli era piombato addosso. Il papà Marco, 45 anni, è tornato ad abbracciarlo dopo 6 mesi passati in ospedale a Pavia, con ustioni riportate sul 95 per cento del corpo. Il volto ancora segnato, oggi combatte per la sicurezza in ferrovia. Hamza Ayad, 16 anni, aveva un cuore di leone: riuscì a emergere dalle macerie e tornò tra le fiamme a cercare la sorellina Iman, 3 anni. Soffocato dal gas, svenne prima di poterla salvare. Sono morti entrambi, insieme ai genitori Aziza e Mohammed, 46 e 51. Degli Ayad si è salvata solo Ibitzen, oggi 26 anni. Ana Habic, 42 anni, fu assalita dalle fiamme con in mano la maniglia, mentre usciva per cercare aiuto per il suo assistito, Mario Pucci, 90 anni. Si trovavano in via Ponchielli per pochi giorni, il tempo di ristrutturare casa, Nadia Bernacchi e Claudio Bonuccelli, 59 e 60 anni, anche loro nel conto delle vittime. Alla lista vanno aggiunte le sorelle Ilaria e Michela Mazzoni, 36 e 33 anni, Magdalena Cruz Ruiz Oliva, 40 anni, Alessandro Farnocchia e Marina Galano, 45, Maria Luisa Carmazzi e Andrea Falorni, 49 e 50 anni, Abdellatif e Nouredine Boumalhaf, 34 e 29 anni, Rachid Moussafar, 25, e Angela Monelli, un'anziana stroncata da un infarto. L'ultima a morire è stata Elisabeth Silva, 36, che lottò per 6 mesi in ospedale.
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Complimenti, sei imputato!
Sotto accusa 9 società e 33 persone, tra cui i manager del gruppo FS e i dirigenti e dipendenti di tre aziende: la proprietaria del carro, Gatx Rail Austria e Germania; l'officina tedesca Jugenthal che lo revisionò; e la Cima riparazioni che lo montò. I reati contestati vanno da omicidio colposo plurimo a incendio colposo, passando per illecito amministrativo e violazione delle norme per la sicurezza sul lavoro.

Se all'indomani dell'incidente, come riporta Repubblica, le Ferrovie sospesero i contratti con la Gatx e con la Cima, con la quale lavoravano dal 1945, poco hanno fatto per sanzionare o sospendere dall'incarico gli imputati al loro interno. Che hanno fatto carriera, complici i governi.

Mauro Moretti, all'epoca della strage a.d. del Gruppo F.S., è stato accusato di “inosservanza di leggi, ordini, regolamenti e discipline” e di “omissioni progettuali, tecniche, valutative, propositive e dispositive”. Dopo il disastro ha ricevuto il cavalierato dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. La politica ha rinnovato il suo mandato sia quand'era indagato (governo Berlusconi) che quando è diventato imputato (esecutivo di Enrico Letta). Sotto Matteo Renzi è stato promosso amministratore delegato di Finmeccanica. Al suo posto in Ferrovie è andato un altro imputato nella strage: Michele Mario Elia, già capo di Rfi. Immediate le proteste dei familiari, che il 29 maggio hanno fermato un treno sul binario 4 (video), quello dell'incidente, manifestando la loro indignazione.

Anche Vincenzo Soprano, a.d. di Trenitalia, è rimasto al suo posto. Giulio Margarita dalla direzione tecnica di Rfi è passato all'Agenzia nazionale per la sicurezza ferroviaria, mentre Emilio Maestrini, responsabile della Direzione ingegneria, sicurezza e qualità di sistema di Trenitalia, venti giorni dopo il disastro ferroviario fu sostituito con Donato Carillo, stretto collaboratore di Moretti, anche se questi ha negato un rapporto tra l'incidente e il trasferimento.

Mancati controlli?
Dichiarazioni inquietanti sono emerse già a partire dalla mattina del 30 giugno, quando a Viareggio il fumo saliva dalle rotaie. Lo sostiene il ferroviere viareggino Riccardo Antonini, che si trovava a pochi metri da Mauro Moretti, alla stazione dei treni. “Rivolgendosi a un funzionario disse: ‘D’ora in avanti dobbiamo controllare tutto quello che viene dall’estero’. Mi fa capire che fino a quel momento non l’avevano fatto” racconta Antonini.

Il ferroviere licenziato con accuse smentite dai video
Il suo è un altro dei casi oscuri legati alla vicenda di Viareggio. Nell'incidente probatorio, che ha inizio nel marzo 2011, Riccardo Antonini, 62 anni, decide di mettere la sua lunga esperienza in ferrovie al servizio della verità e accetta di essere consulente della famiglia di una delle vittime. L'azienda gli chiede di smettere immediatamente, lui rifiuta e ad agosto viene sospeso per 10 giorni. A settembre, alla festa del Pd di Genova, Antonini è accanto ai familiari delle vittime quando Moretti viene contestato dai No Tav presenti, che lo costringono ad annullare l'intervento. Ma l'ad di Ferrovie accusa proprio Riccardo Antonini di avergli impedito di parlare e di avergli rivolto pesanti ingiurie. Lo querela. Il 28 ottobre Antonini, a un anno dalla pensione, viene licenziato. Oggi il ferroviere è in attesa dell'appello che potrebbe decidere il suo reintegro. Nel frattempo il tribunale di Genova ha archiviato la vicenda: Antonini non ha fatto niente di ciò di cui è accusato. Lo dimostrano i video della Digos, presente per riprendere i No Tav. “E' gravissimo che i suoi testimoni abbiano affermato cose che io non ho detto” dice Antonini.

Manutenzioni da 4 euro
Lo stesso scenario delle manutenzioni europee emerso dalle indagini è molto preoccupante: ogni carro del treno deragliato a Viareggio era stato noleggiato per soli 26 euro; l'asse spezzato era stato revisionato due volte con la manutenzione più accurata in ambito ferroviario, del costo, nel 2002, di 4,92 euro. A farla, nel 2002 e nel 2006, era stata l'officina slovacca Zos Trnava, la stessa che non avrebbe infilato bene le ruote negli assili del treno merci deragliato nel giugno 2012 a Bressanone (fonte: Il Tirreno).

Il perito del gip pagato da Rfi
Partono le indagini. Si scopre che Riccardo Ricciardello, il perito scelto dal giudice per le indagini preliminari, è pagato da Rfi, tra le società indagate. Dopo essere stato nominato perito del gip, Ricciardello infatti aveva accettato un incarico da Rete Ferroviaria Italiana per il valore di 12mila euro. Ma il gip decide che non c'è “sudditanza psicologica”: Ricciardello resta a indagare per la strage di Viareggio. Nella perizia attesterà che a provocare lo squarcio nella cisterna non fu il picchetto (un elemento tagliente molto pericoloso, piantato a fianco dei binari per regolarne le curve e oggi sostituito dai gps), della cui mancata rimozione avrebbe potuto essere giudicata responsabile Ferrovie, ma fu una parte del binario, la cosiddetta “piegata a zampa di lepre”. La sua perizia, insomma, alleggerisce la posizione di Rfi. Questa versione sarà contestata dalla perizia della Procura di Lucca elaborata da Angelo Laurino, il comandante della squadra di polizia giudiziaria della Polfer lombarda e membro del Noif, Nucleo Operativo Incidenti Ferroviari. Laurino non ha dubbi: può essere stato solo il picchetto a perforare la cisterna dalla quale uscì il gpl.

Spionaggi privati
Per mettere in dubbio l'affidabilità di Laurino, i legali degli imputati sono andati a spulciarne il profilo Facebook. A giugno 2014, dopo la sua deposizione, lo attaccano in aula: sul social network Laurino fa parte di un gruppo creato dai familiari delle vittime di Viareggio, del Moby Prince e del terremoto dell'Aquila. Il tribunale giudica irrilevante la questione. Quello contro Laurino non è il primo attacco personale sferrato dalla difesa. Il processo era iniziato appena da un mese quando, nel dicembre 2013, il pm Salvatore Giannino in aula rivelò: “Sono state cercate notizie sulla vita privata del giudice. Con avvocati che andavano in giro a cercare di capire con chi mangiava il giudice e con chi giocava a calcetto!». L'accusa era rivolta alle difese degli imputati, che poco prima avevano messo in discussione l'imparzialità di Gerardo Boragine, presidente del collegio giudicante.

Tra le vittime, c'era chi aveva chiesto il muro di protezione
I risvolti inquietanti non finiscono qui: un muro di protezione dalla ferrovia gli abitanti di via Ponchielli lo avevano chiesto anni prima della strage. In una raccolta firme mandata per raccomandata alla direzione di Ferrovie dello Stato nel 2001, quindi 8 anni prima del disastro, ci sono anche i nomi di  Andrea Falorni, della moglie Maria Luisa Carnazzi e di Mario Pucci, che nella strage sarebbero rimasti uccisi. Il loro appello non era stato accolto.

Cgil, da che parte stai?
La Cgil si costituisce parte civile nel processo e, a livello locale, è vicina ai familiari delle vittime. Ma la dirigenza nazionale non fa che prenderne le distanze.

A marzo la Filt Cgil, Federazione dei lavoratori dei trasporti, invita a parlare l'imputato Mauro Moretti al X congresso nazionale di Firenze, salvo poi annullarne l'intervento per “tensioni esterne”: così definisce le associazioni viareggine che chiedono, pacificamente, più sicurezza.

A maggio la rottura definitiva: alle “giornate di lavoro” di Rimini la Cgil invita Mauro Moretti. Ma lascia fuori Marco Piagentini, che nel disastro di Viareggio ha perso la moglie e due figlioletti e che aveva chiesto di poter parlare con una lettera formale.

I familiari delle vittime chiedono alla Cgil, della cui segreteria nazionale Moretti ha fatto parte dal 1986 al 1990, di lasciare il processo: non la sentono al loro fianco. Finora, però, il sindacato ha fatto orecchie da mercante.

I guerrieri: parlano Daniela Rombi e Marco Piagentini
Entrambi hanno perso i figli nella strage e da allora sono diventati i paladini della sicurezza in ferrovie, sempre in prima fila. Daniela Rombi e Marco Piagentini hanno la casa invasa dai documenti: il processo non li ha trovati impreparati; e spendono decine di migliaia di euro in perizie pur di arrivare alla verità, insieme agli altri parenti riuniti nell'associazione “Il Mondo che Vorrei” e ai cittadini e ferrovieri di “Assemblea 29 giugno”. Dal perito del gip pagato da Rfi alle donazioni che non sono state distribuite, dallo Stato che non si costituisce parte civile alla Cgil nazionale che gli rifiuta la parola e invita l'imputato Mauro Moretti: Marco Piagentini ha sopportato tutto questo dopo che il treno carico di gpl gli ha strappato la moglie Stefania, di 40 anni, e due dei tre figli: Luca, 4 anni, e Lorenzo, di soli 17 mesi. “Siamo pienamente coscienti – dice all'Espresso - che cercare la verità in questo Paese era ed è difficile. Certo è che lo Stato prima conferma e puoi promuove chi è rinviato a giudizio e poi abdica in cambio di soldi, invece di partecipare al processo più grande della storia nazionale per un incidente ferroviario, dove si affronterà il tema della sicurezza in ferrovia. Sinceramente fa male non solo come genitore ma soprattutto come cittadino italiano”. Quando Letta decise di non costituire lo Stato parte civile, Piagentini gli scrisse una lettera, invano. Marco si sente preso in giro anche dalla Cgil nazionale. “Con i soldi dei propri tesserati paga avvocati costituendosi parte civile, senza mai essere parte attiva nel processo, e poi invita l'ex a.d. di Ferrovie e non fa parlare i familiari delle vittime. Questi fatti ci fanno capire quale linea abbia sposato la Cgil, certo non quella di stare accanto alle persone in difficoltà o ai più deboli della società. E questo non lo dice Marco Piagentini ma lo dicono i fatti dei mesi di aprile e maggio” afferma.

“E' una battaglia impari. I nostri avvocati e i nostri consulenti sono al lavoro, abbiamo dalla nostra la realtà dei fatti, le evidenze riscontrate nelle indagini, gli studi e le consulenze che evidenziano le mancanze, le negligenze. Loro hanno il potere economico, politico, sono un potere forte nel nostro Paese, le ferrovie sono dello Stato e lo Stato non si è costituito parte civile, ci ha lasciato soli ed ha preso i soldi” è la triste riflessione di Daniela Rombi, che per 42 giorni dopo l'esplosione ha assistito, dietro un vetro di protezione, la figlia agonizzante. Emanuela Menichetti morì a 21 anni con ustioni sul 98 per cento del corpo.

“L'anima in pace forse non la metterò mai, quando sarà fatta giustizia forse. Non ho accettato i soldi delle assicurazioni perché voglio essere parte attiva in questo processo, perché con i soldi non mi viene ridata Emanuela, ma soprattutto perché questa è una battaglia di civiltà che devo condurre in nome di mia figlia e di tutti gli altri: la sicurezza in ferrovia non c'è assolutamente, la gente deve sapere come stanno veramente le cose. E noi, che stiamo studiando da 5 anni, possiamo dire molto su quello che non va e su quello che andrebbe fatto per migliorare la sicurezza” dice la presidente del “Mondo che Vorrei”.

“Credo che la forza me la dia Emanuela, anzi, ne sono certa. Io non ho mai fatto politica, non sono nessuno, sono solo una mamma, una moglie, una donna che lavora. Ma da quel giorno, piano piano, è scoppiata in me una grande rabbia oltre il dolore, ed ogni volta che sentivo dichiarazioni vergognose e offensive la rabbia aumentava. Incontrando altri familiari e cittadini e ferrovieri impegnati per la sicurezza, ho capito che per non impazzire questo era ciò che dovevo fare. E' come se Emanuela, quando accade qualcosa, e accade sempre, mi dicesse cosa devo fare. E' faticoso, doloroso, straziante, ma non vedo cosa altro potrei fare perché mia figlia e gli altri non siano morti per niente. Emanuela – conclude Daniela Rombi - mi manca da morire, ogni giorno di più; mi manca il suo odore, la sua pelle, il suo abbraccio, la sua voce, la sua allegria, il suo sorriso. Il suo ricordo è struggente, la amo ogni giorno di più, è dentro di me”.