Dal mondo di Tolkien a "Apes Revolution". In questo campo Andy Serkis è in assoluto il primo e miglior interprete al mondo, simbolo delle potenzialità delle nuove tecnologie applicate alla recitazione

Un gorilla e uno scimpanzé sono molto diversi tra loro: parola di Andy Serkis, l’attore inglese che grazie alla “preformance capture” li ha “interpretati” entrambi. E che all’“Espresso” racconta: «Quando, per l’“Alba del Pianeta delle Scimmie” ho dovuto decidere come recitare il ruolo dello scimpanzé Caesar, ho capito che psicologicamente sarebbe stato totalmente diverso dal mio King Kong».

Serkis presta di nuovo il suo volto a Caesar in “Apes Revolution” di Matt Reeves, terzo capitolo della trilogia iniziata nel 1968 dall’indimenticabile “Pianeta delle scimmie” di Franklin J. Schaffner, rifatto da Tim Burton nel 2001. «Fin dall’inizio ho pensato a Caesar come a un uomo in una pelle di scimmia», racconta Serkis. «Perché, essendo stato preso da cucciolo e allevato da Will Rodman (lo scienziato interpretato da James Franco), fino all’adolescenza era convinto di essere anche lui umano. Per questo prima di interpretarlo ho studiato il comportamento degli scimpanzé ma soprattutto quello di Oliver: una scimmia che, negli anni Settanta, era cresciuta tra gli esseri umani, camminava su due zampe ed era definita “humanzee”, visto che sembrava addirittura un incrocio tra uomo e scimpanzé».

La sfida, per Serkis, è stata interpretare l’evoluzione fisica e psichica di Caesar che compare come cucciolo indifeso nel primo film della serie, si trasforma in adolescente rivoluzionario nell’«Alba del Pianeta delle Scimmie» di Rupert Wyatt e in “Apes Revolution” , ambientato dieci anni dopo il precedente, diventa il leader di una comunità di oltre tremila scimmie.
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APES REVOLUTION
«Apes Revolution – Il Pianeta delle Scimmie», che uscirà in Italia il 30 luglio, distribuito da 20th Century Fox, mostra la nazione di scimmie governate da Caesar vivere in pace nei boschi, fino a quando si profila la minaccia del contatto con una banda di umani. Questi sono tra i pochi sopravvissuti al virus creato per sbaglio in laboratorio dieci anni prima durante la ricerca di una cura per l’Alzheimer: è lo stesso virus che ha permesso l’abnorme evoluzione cerebrale delle scimmie. Con un cast che schiera, tra gli altri, Jason Clarke, Gary Oldman e Keri Russell come interpreti umani, contrapposti alle “scimmie” Toby Kebbell e Judy Greer (che è Cornelia, compagna di Caesar, il film amplia su scala epica le tematiche del precedente. In sella al suo cavallo, Caesar al comando di un esercito di duemila scimmie fronteggia i minacciosi umani superstiti: eppure, assicura Serkis, «questo non è un “war movie”, ma piuttosto un “peace movie”: un film sulla necessità di evitare la guerra, una storia centrata sull’empatia, la famiglia e il futuro. Caesar», continua l’attore, «vive il conflitto interiore legato alla sua infanzia e non vorrebbe combattere gli esseri umani. Ma ora è il capo delle scimmie, ha moglie e figli, sente il peso della responsabilità verso i suoi simili. Per me era importante mostrare Caesar come un leader dotato di grande empatia, ma nel mondo di oggi non ho trovato nessun leader del genere a cui ispirarsi: così ho pensato a Nelson Mandela».


PERFORMANCE CAPTURE
Andy Serkis è dal 2001, cioè dalla sua interpretazione del Gollum nel “Signore degli anelli”, l’attore simbolo delle potenzialità delle nuove tecnologie applicate alla recitazione grazie alla sua maestria nell’usarle: lui però, con una certa civetteria, sottolinea che «in fondo il “performance capture” non è altro che un gruppo di cineprese usate per riprendere l’attore mentre recita». Sarà anche vero, certo è che interpretare il proprio ruolo con indosso una tutina grigia costellata di “marcatori”, il volto coperto anch’esso di piccoli marcatori e con in testa un casco, cui è fissata la microcamera che riprende gli occhi, non sembra il massimo della naturalezza. Ma Serkis, in questo campo, è in assoluto il primo e miglior interprete al mondo, anche se il suo lavoro, finora, è stato ignorato dall’Academy di Hollywood. In questo film tutte le diverse specie di scimmie (gorilla, oranghi, bonobo, scimpanzé), sono interpretate da un cast di soli quindici attori, guidati da Serkis e con il coordinamento del veterano Terry Notary: attore, stuntman ed esperto coreografo dei movimenti animali. «Abbiamo girato il film direttamente in 3D e all’aperto: abbiamo cominciato nella foresta di Vancouver, dove faceva un freddo allucinante ed eravamo nel fango fino alle ginocchia, poi ci siamo trasferiti a New Orleans, dove l’umidità era del 100 per cento. Stare vicino a qualcuno che ha indossato la tutina aderente di gomma del “performance capture” per qualche ora in quel clima non è una bella esperienza olfattiva», ricorda ironico Serkis.

«Dal punto di vista fisico questi set hanno rappresentato una vera sfida sia per gli attori, sia per la troupe. Credo che la situazione fosse paragonabile alle difficoltà di chi, nel 1982, ha lavorato sul “Fitzcarraldo” di Herzog, girato nella foresta Amazzonica».

IL CINEMA DEL FUTURO
Fatiche di set a parte, Serkis oggi è soprattutto affascinato dai possibili sviluppi espressivi del “performance capture” nel cinema del futuro perché, dice, «finora è stata pensata come una tecnologia utilizzabile esclusivamente in film ad altissimo budget, come questo». «In realtà i costi di questo strumento stanno scendendo, tanto che lo troviamo usato sempre più spesso nella realizzazione di videogames e nelle serie televisive», riflette l’attore. «Io ho fondato “The Imaginarium”, uno studio specializzato in “performance capture”, proprio per spingerne l’uso oltre i confini attuali. Negli spettacoli dal vivo, ad esempio, si può filmare con questo metodo una performance, proiettando in tempo reale sullo schermo gli “avatar” elettronici degli attori. Molti coreografi sono venuti da noi con idee interessantissime su come utilizzare questa tecnica per la danza. In questo modo si possono animare figure che non hanno nulla di umano, animali, ma anche immagini astratte, o suoni, o luci». Non solo scimmie, quindi: «Abbiamo parlato molto con compagnie come “Le Cirque De Soleil”, per studiare il modo di utilizzare le loro performance in un simile contesto e capire così come, tra venti o trenta anni, potrebbe cambiare il modo stesso di narrare visivamente una storia».