La strana alleanza tra sigle di destra e Cgil fa saltare gli accordi per risanare il Teatro dell’Opera. E dopo l'abbandono di Muti continua la difesa di un’imbarazzante serie di privilegi

Il mio rigor dimentica” canta Adina nel secondo atto del’“Elisir d’amore”. Parole che potrebbero tornar in mente a chi ricorda la gloriosa stagione del sindacalismo tutto d’un pezzo alla Giuseppe Di Vittorio, poiché gli sarebbe incomprensibile come i futuri compagni-commilitoni della Cgil, allocati all’Opera di Roma, abbiano potuto accettare fra le loro fila i transfughi espulsi dal sindacato di destra Libersind-Confsal,  fra i quali Roberto Conte, l’onnipotente capo dei facchini del teatro, manovratore non tanto occulto di questa sparuta ma decisiva pattuglia, oppositori e allo stesso tempo ideologicamente affini all’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno

Sindacalisti che confluirono nella Cgil dopo tutti i problemi seguiti alla messa in scena della “Manon Lescaut” nel febbraio scorso, con tanto di scioperi dichiarati per la prima e per tutte le repliche, che misero a rischio l’intera produzione. Fu allora che i membri del sindacato Libersind del teatro furono commissariati dai capi-struttura nazionali e si “buttarono a sinistra”. Per loro, come per Machiavelli, quando si tratta di politica e di lotta per il potere «nelle cose si abbia a vedere il fine e non il mezzo», dunque.

E in effetti questa insolita alleanza sindacale ha costituito un nocciolo duro di potere, un autentico attore deuteragonista del braccio di ferro con la sovrintendenza del massimo teatro lirico capitolino. E costituisce parte preponderante del gomitolo di concause che spiega l’atmosfera di incertezza alla base dell’autolicenziamento di Riccardo Muti. Un caratterino niente male pure lui, che già aveva avuto modo di farsi amare dagli orchestrali della Scala quando, nel giugno 1995, in occasione di una “Traviata”, sostituì gli strumentisti in sciopero accompagnando i cantanti dal pianoforte.

I voti della strana alleanza sindacale sono stati decisivi a inizio estate - insieme a quelli del sindacato autonomo Fials - nel non accettare il piano industriale del sovrintendente Carlo Fuortes. Piano “soft” che non prevedeva alcun licenziamento, ma 65 pensionamenti, la conferma dei livelli salariali e l’intenzione di aumentare la produttività. «Si vuol far diventare il teatro dell’Opera un teatro di provincia», fu la risposta di una parte dei sindacati. E ancora: «Il piano di ristrutturazione serve solo a depotenziare il teatro, manca la progettualità».

Il sovrintendente allora aveva presentato per la prima volta un piano di rientro. Una manovra che per il risanamento avrebbe sbloccato oltre 20 milioni di euro di fondi governativi, come previsto dalla legge Bray, e che venerdì scorso avrebbe finalmente ottenuto il via libera nel referendum tra i lavoratori. Ma a questo punto la locale Cgil, che insieme alla Fials rappresenta meno del 25 per cento dei lavoratori dell’Opera, si è messa di traverso, contestando l’adesione al piano delle altre sigle scelte dalla maggioranza degli stipendiati del Costanzi, ossia Cisl e Uil.

Per capire  e inquadrare bene questa vicenda bisogna ripercorre la storia di questo ultimo atto: a fine giugno, al Festival di Caracalla, la contrapposizione dei sindacati sfociò in plateali contestazioni, con grandissimi danni di immagine per il teatro. Si riparò con una sorta di patto, presenti, oltre all’assessore alla cultura di Roma capitale Giovanna Marinelli, i rappresentanti territoriali delle tre confederazioni Cisl, Uil e per la Cgil Claudio Di Berardino. In quella sede fu raggiunto un accordo fra le tre confederazioni poi citato anche da Susanna Camusso, leader supremo della Cgil, come esempio di democrazia sindacale.

Queste tre confederazioni con Confindustria avevano pure firmato un accordo per il quale se una delle tre era contraria alla decisione delle altre due, l’unico modo che aveva per opporsi era un referendum. Poteva indirlo con il 30 per cento minimo di richieste, e poi ovviamente il referendum avrebbe deciso con il 50 per cento + 1 voto che cosa si doveva fare per tutti.

E arriviamo al 19 settembre, data fatidica del referendum. La Fials si chiama fuori. E la Cgil del teatro, contravvenendo le decisioni di quella territoriale, lo boicotta, smentendo l’accordo fatto presso l’assessorato. Cisl e Uil sono andate avanti: 305 dipendenti sui 328 votanti (537 erano gli elettori), quindi la maggioranza assoluta, hanno accettato il piano della sovrintendenza. La Cgil sapendo di essere minoranza ha deciso di non votare, assegnandosi da sola tutti i non votanti: insomma, alla fine anche l’accordo per applicare il referendum non è stato messo in atto. Due giorni dopo, Muti annuncia che non dirigerà “Aida” e “Nozze”.

Perché gratta-gratta, il problema vero è che negli enti lirici una minoranza di persone, spesso quella degli orchestrali, decide le sorti di tutti i lavoratori.

Un potere tale per il quale se cinque-dieci prime parti (primi violini, violoncelli o fiati ecc.ecc.) scioperano, bloccano il lavoro di seicento persone. E poiché il lavoro in teatro è a prestazione collettiva, a farne le spese e non prendere la paga sono tutti e non solo chi sciopera. Mentre una logica democratica favorirebbe una risoluzione per la quale dovrebbe essere come minimo la maggioranza dei lavoratori a decidere se fare uno sciopero.

Per la risoluzione della crisi dell’Opera siamo dunque in stallo. Anche se, dichiara il sovrintendente Fuortes a “l’Espresso”, «durante questi mesi di lavoro sono sempre stato convinto della bontà e dell’efficacia delle azioni e del piano di risanamento nell’interesse generale del teatro, dei lavoratori e della collettività. Ero certo che tutti i lavoratori avrebbero accettato un progetto industriale senza licenziamenti e mobilità, nonostante la legge Bray obbligasse a una riduzione degli organici, e senza riduzione dei livelli salariali, nonostante la grave crisi economica e finanziaria del Teatro. E ancora oggi sono per me inspiegabili le vere ragioni che hanno portato una parte del sindacato a opporsi al piano».

Un universo di rapporti, quello difeso a oltranza da una parte del sindacato, dove la trasformazione delle tutele in privilegi è, in generale, fra le cause decisive della difficile gestione dei nostri teatri lirici.

Qualche esempio concreto: se un musicista all’opera suona un capolavoro di Wagner che dura quattro-cinque ore, si guadagna il suo stipendio. Ma se fa un concerto in forma non scenica di quello stesso capolavoro, con un programma selezionato che dura un’ora, può render conto alla cassa di un cento per cento in più di paga, la cosiddetta indennità sinfonica.

Sempre per gli strumentisti ci sono le “indennità frac”, quelle umidità se lo spettacolo è all’aperto, quelle video se il concerto è ripreso dalle telecamere. E i coristi non sono da meno: all’opera “vestire la giubba”, ovvero l’abito richiesto dalla scena, rientra nello stipendio fisso. Ma se canta “Va’ pensiero sull’ali dorate” dal “Nabucco” in forma di concerto, quindi in frac o in abito da sera, le ali sono ancor più dorate, guadagnando, sempre secondo accordi sindacali, il doppio della tariffa normale. Sempre i coristi, se il regista chiede loro di muovere la testa al ritmo della musica, secondo disposizione regolamentata acchiappano pure l’indennità della prestazione specifica.

Possono godere poi di indennità lingua, quando gli tocca cantare Wagner in tedesco o l’“Oneghin” in russo. E l’indennità arma, se nella “Tetralogia” devono roteare lance e spade o, in quanto bellicosi galli in “Norma”, sfidare Roma impugnando asce e picche. I ballerini dal canto loro possono ottenere una gratifica perché il palcoscenico è stato leggermente inclinato dallo scenografo, come avviene quando nel “Ring” il Walhalla s’innalza sul trepido mondo dei nibelunghi.

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