
Al blocco delle importazioni di prodotti agroalimentari, deciso dalla Russia il 6 agosto, due settimane dopo è seguito lo stop alle esportazioni, stavolta dalla Russia, delle “wet blue”, le pelli conciate allo stato umido di bovini ed equini senza pelliccia. Sembrerebbe roba da poco, ma la Russia è il quarto esportatore di pelli semilavorate in Italia, un affare che l’anno scorso valeva 74 milioni di euro.
Nei giorni successivi all’embargo alimentare l’attenzione si è concentrata su lamentele e fosche previsioni di chi in Russia vendeva, sino a un mese fa, ortaggi e frutta, formaggi e latticini, carni congelate e salami: 51 categorie che nel 2013 hanno portato nelle casse delle aziende italiane 217 milioni di euro. Un tesoretto che rischia di andare in fumo.
[[ge:rep-locali:espresso:285130400]]Prima della staffilata sulle pelli, Mosca aveva già fatto venire i brividi ad altre migliaia di imprese, innalzando il primo steccato in uno dei settori più caldi per l’export italiano lassù, quello della moda. Il provvedimento vieta ai soggetti pubblici russi di acquistare prodotti tessili, abbigliamento, calzature, valigie e pelli realizzate fuori dall’unione doganale tra Russia, Bielorussia e Kazakistan. Quando la norma è stata messa a fuoco c’è stato un sospiro di sollievo, visto che società e organismi pubblici non sono avidi di abiti e scarpe Made in Italy. Tuttavia, è facile intravvedere in filigrana, dietro a questa mossa, un chiaro avvertimento: come dire, occhio a non tirare la corda, sennò colpiamo duro il mondo della moda. Sarebbe una mazzata, per l’Italia, che nel 2013 ha esportato in Russia per circa due miliardi.
A inizio agosto, l’Ufficio studi economici della Sace, la società pubblica che assicura i crediti degli esportatori italiani, sulla base delle sanzioni adottate da Stati Uniti ed Europa nei confronti della Russia, aveva prefigurato due scenari. Il primo, chiamato “stabile” e considerato più probabile, immaginava uno stazionario quadro di ripicche progressivamente limitato a colpire singoli soggetti: risultato, economia russa debole per almeno due anni e quasi un miliardo in meno di esportazioni dall’Italia.
Nello scenario pessimistico, invece, ecco l’escalation delle violenze, la chiusura delle pipeline russe che attraversano l’Ucraina, la fuga dei capitali e una perdita di 2,4 miliardi di export italiano. «Purtroppo, questo quadro fosco, considerato un mese fa meno probabile, ora ha invece maggiori possibilità di accadere», spiega Alessandro Terzulli, economista della Sace. L’inasprirsi della crisi nell’est dell’Ucraina, con l’avvitarsi di sanzioni e ritorsioni, fa lievitare le preoccupazioni di migliaia di imprenditori e dei loro dipendenti, che oltre agli schiaffi dovuti a embarghi e sanzioni dovranno fare i conti con un Paese comunque in crisi, e meno disposto a spendere per la merce straniera che, con il rublo in caduta libera, costa sempre di più.
Così la Federazione russa da mercato di sbocco più interessante per il Made in Italy si è trasformata in un incubo. Nel 2013 il flusso di esportazioni dall’Italia alla Russia è stato di 10,4 miliardi di euro. Per provare a limitare l’espansionismo dello zar Vladimir Putin nelle zone ucraine abitate da russofoni in urto con il nuovo governo di Kiev, Stati Uniti e Unione Europea hanno dato il via a un tourbillon di botta-e-risposta. Che, lamentano tanti imprenditori, produce pure un pericoloso fuoco amico, indirizzato su esportatori di pesche e kiwi, produttori di formaggi e latticini, costruttori di complicati sistemi tecnologici utilizzabili per scopi militari e apparecchiature per la perforazione petrolifera. Il divieto stabilito dalla Ue di vendere ai russi beni e tecnologie che nascono “civili” ma finiscono “militari”, potrebbe far traballare il progetto dell’aereo da trasporto Superjet 100 di Finmeccanica e procurare qualche problema con gli elicotteri AW 139, prodotti in Russia e impiegati dal ministero dell’Interno e dallo stesso Vladimir Putin.
Rischiano anche i contratti per la fornitura di sistemi di telecomunicazione Selex Tetra, adottati dai corpi di polizia. A fine luglio, Fincantieri ha detto addio al sottomarino militare S-100, un progetto nato dieci anni fa. Negli stessi giorni, il Gruppo Trevi si è aggiudicato in Russia un contrattone per fornire un impianto petrolifero di perforazione offshore. Basterà assemblarlo nell’impianto bielorusso del gruppo italiano per evitare la tagliola?
Sostituire eventuali abbandoni obbligati in settori ultratecnologici sarà ovviamente complicato. Nell’ortofrutta, invece, l’elenco dei panchinari pronti a diventare titolari lo ha già messo nero su bianco lo stesso governo russo.
A rimpiazzare gli occidentali nella forniture agroalimentari saranno: Argentina, Armenia, Azerbaigian, Cile, Cina, Egitto, Israele, Marocco, Sudafrica, Tagikistan, Turchia e Uzbekistan. L’Azerbaigian, grosso produttore di verdure, era in rampa di lancio. Nei primi sei mesi del 2014 l’export di ortaggi in Russia era già cresciuto a 76,6 milioni, il 50 per cento in più rispetto all’anno prima. E di sicuro nell’ultimo mese, nonostante la siccità che lo ha colpito, ha ulteriormente accelerato.
Anche la Bielorussia di Alexander Lukashenko, al potere dal 1994 e alleato fedele di Putin, sta cavalcando la situazione. Secondo Fresh Plaza, il portale internazionale del settore ortofrutticolo, negli ultimi giorni all’aeroporto di Minsk, la capitale del Paese, gli arrivi di frutta e verdura sono aumentati alla grande. Pare ci siano anche limoni, pompelmi e ananas etichettati come “made in Bielorussia”. Una stranezza, visto il clima non proprio mediterraneo di un Paese che, pur privo di sbocchi sul mare, ora esporta in Russia pure ostriche e gamberetti.
La grande beneficiaria dell’embargo dovrebbe essere tuttavia la Turchia, fino a oggi il maggior esportatore di prodotti agricoli in Medio Oriente e Nord Africa, e ora candidata a diventarlo anche in Russia. Prima dell’embargo alcuni produttori turchi utilizzavano l’etichetta “Made in EU” per elevare la percezione di qualità delle proprie merci. Adesso sono i produttori europei “embargati” che vorrebbero appiccicare sulle loro cassette di frutta il timbro “Made in Turchia” per farle entrare in Russia. Ma se Ankara ha la sua produzione da esportare, gli esperti sostengono che chi ha più interesse a essere utilizzata come sponda è la Serbia, che già non paga dazi per vendere in Russia.
Le triangolazioni sono possibili ma sempre rischiose, anche perché far transitare le merci da un Paese-intermediario aumenta del 15-20 per cento i prezzi. Si frega le mani pure la Svizzera, che della neutralità ha fatto un dogma: non avendo aderito pienamente alle sanzioni, Berna non ha subito la controffensiva del Cremlino.
Morale, l’export alimentare della Confederazione, basato su caffè e formaggio (nel 2013, un flusso complessivo di 165 milioni di euro), quest’anno potrebbe esplodere. Quelli di InterCheese, per esempio, sono stati contattati recentemente da aziende russe per importare Emmental, Gruyere e Appenzeller in sostituzione dell’italica mozzarella o dell’olandese Gouda. «Era il mercato più promettente per noi, adesso cerchiamo di compensare le perdite puntando sull’Estremo Oriente», racconta Fausto Turcato della Latteria Sociale di Mantova, 180 dipendenti e 19 mila forme di Grana Padano vendute in Russia nel 2013. L’azienda fa parte del Consorzio Grana Padano che, sostiene il presidente Stefano Berni, a fine anno avrà perso 50 milioni: «Gli aiuti europei per tutto il comparto del cibo sono di 125 milioni. Poca cosa. Speriamo che la Russia tolga davvero l’embargo ai prodotti privi di lattosio», è la sua preghiera.
Non prega ma tuona Giacomo Ferri, presidente di Euronaturitalia, consorzio di aziende ortofrutticole: «Non sappiamo più cosa fare, più passano i giorni più le cose si complicano. Cercheremo di piazzare in Europa l’uva che fino all’anno scorso spedivamo in Russia, ma il mercato è saturo e quindi i prezzi caleranno. Temiamo pure che quando l’embargo finirà, i russi si saranno abituati ad altri produttori e da noi non torneranno più».
Secondo Citibank, il cibo vale un quinto di tutte le importazioni russe. «Ora gli scaffali dei supermercati si riempiranno di merce di produttori locali», ha gonfiato il petto Dimitri Medvedev. Intanto, l’effetto più evidente dell’embargo è stato un altro: nelle zone più remote del Paese i prezzi sono schizzati verso l’alto, racconta il quotidiano economico “Kommersant”. Sull’isola di Sakhalin, a due passi dal Giappone, il pollo è aumentato del 60 per cento, e nella regione di Primorsky la carne rossa si è apprezzata di un quarto e il pesce del 40 per cento.
Agroalimentare, abbigliamento, calzature, trivelle ed elicotteri: perdere pezzi di questi business preoccupa. Ma a terrorizzare davvero, in prospettiva, è la chiusura del rubinetto energetico. «Se la Russia dovesse interrompere le forniture di gas verso l’Europa per più di 10 giorni, per l’Italia sarebbe un disastro», avverte Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia. «In Europa siamo i più dipendenti dal metano per produrre elettricità, e un quarto del nostro import di gas arriva proprio da Mosca. Nel 2006 e nel 2009 le crisi le abbiamo superate con gli stoccaggi, ma se il blocco dura a lungo diventa difficile compensare. Anche la Russia però non ha interesse a interrompere il flusso, non se lo può permettere, le vendite di gas rappresentano tra il 7 e l’8 per cento del Pil. Dipendiamo gli uni dagli altri: loro hanno l’energia, noi la tecnologia». Intanto tuona il cannone e il piatto piange.