Candidati in corsa, schermaglie tattiche, agguati nell'urna, pretendenti a sorpresa, misure estreme per controllare il voto dei grandi elettori. Non c'è appuntamento istituzionale che non susciti passioni e curiosità come l'elezione del nuovo presidente della Repubblica. Le pagine che i giornali continuano a sfornare lo testimoniano. Molti eventi si ripetono con la sacralità del rito. Altri, invece, anche curiosi, conquistano la ribalta finendo per dare una impronta particolare all'evento. Ecco un piccolo dizionario della corsa al Quirinale 2015
A come Amato Giuliano. Nella prima lettera ci sono già gli ingredienti in grado di connotare l'elezione in corso. Venisse eletto Amato, attuale giudice costituzionale, ma anche ex presidente del Consiglio, ministro e tante altre cose ancora, sarebbe il trionfo dell'usato garantito. Anche troppo, per la verità, visto che già negli anni Ottanta l'attuale membro della Consulta è stato anche vicesegretario del Psi e sottosegretario alla presidenza del Consiglio con Bettino Craxi. Tanti lo invocano come il Messia altri lo vedono come fumo negli occhi.
C come catafalco, quella ingombrante struttura in legno con relativa tenda che fa mostra di sé per tutta la durata dell'elezione sotto il banco della presidenza. Fece la sua comparsa nella tornata del 1992, quella che dopo le bombe di Capaci portò Oscar Luigi Scalfaro alla presidenza. Il marchingegno serve a garantire la segretezza del voto, una delle massime aspirazioni dei grandi elettori. O almeno a dar loro questa impressione. Gli stratagemmi per capire quello che accade una volta oltrepassata la tenda sono tanti. C'è anche chi cronometra il tempo di permanenza, indicativo per capire se l'onorevole o il senatore di turno stia per esempio votando o meno scheda bianca.
F come franchi tiratori, i parlamentari più temuti nelle elezioni per il Quirinale. Sono quei grandi elettori che nel segreto dell'urna votano diversamente dalle indicazioni di partito. Temibili cecchini, dalla nascita della Repubblica hanno messo a segno tradimenti leggendari azzoppando candidature eccellentissime. Tra le loro vittime, grandissime glorie del passato, da Giovanni Spadolini a Giulio Andreotti, da Pietro Nenni ad Arnaldo Forlani. E, naturalmente, Romano Prodi, colpito nel 2013 dai cecchini del Pd che in dirittura d'arrivo fecero sfumare un'elezione praticamente già fatta.
M come Magalli, al secolo Giancarlo, autore e presentatore televisivo, fresco titolare di un seguito blog su “L'Espresso”. Comunque vada a finire, è il vero trionfatore di queste elezioni presidenziali, lanciato sulla scena da un sondaggio del “Fatto Quotidiano” che lo ha consacrato come il più gradito dai cittadini. E non è cosa da poco. In una competizione nella quale trattative e designazioni si consumano nelle segrete stanze del Palazzo, il presentatore può ben dire di essere l'unica, autentica espressione della volontà dei cittadini. E scusate se è poco.
N come Napolitano, l'unico presidente che sia riuscito a collezionare un bis. Invocato dai partiti incapaci due anni fa di eleggere un successore, accettò con apparente riluttanza. In tanti prima di lui ci avevano provato, nessuno era riuscito ad ottenere una seconda nomina. Segno di fiducia e apprezzamento dei grandi elettori, ma anche una faticaccia nel governare la crisi di un sistema da decenni bisognoso di riforme. Ha lasciato dicendo di vedere il processo di rinnovamento finalmente avviato. Le polemiche e le spaccature in corso sembrano certificare il contrario. Speriamo abbia visto giusto.
P come Patto del Nazareno: è una di quelle formule, come la Bicamerale del liberale Bozzi o l'altra di Massimo D'Alema, destinata a rimanere negli annali. Segna l'accordo di ferro tra Renzi e Berlusconi, stipulato ufficialmente per portare a termine le riforme di cui il Paese necessita, ma per i suoi critici più accaniti, a cominciare dalla minoranza del Pd, sembra diventato il contenitore per gli inciuci più indicibili. Se funzionerà, dovrebbe spingere il Parlamento ad eleggere in pochi scrutini il nuovo presidente. Buono o cattivo, poco importa. Le premesse ci sono tutte, ma con Berlusconi e i suoi conflitti di interesse non si sa mai come va a finire. Renzi è avvertito.
S come scrutini. Il loro numero fornisce l'indice di gradimento del presidente eletto. Per consacrare Carlo Azeglio Ciampi e Francesco Cossiga ne bastò uno. E tutti gridarono al miracolo inneggiando ai neo capi dello Stato. Per eleggere Giovanni Leone ce ne vollero invece 23, record assoluto. Il segnale (brutto) non venne recepito. Si vide poi come andò a finire: nel giugno del 1978, l'esponente della Democrazia cristiana fu costretto a dare le dimissioni e ad abbandonare anticipatamente la presidenza.
Q come Quirinarie: la grande innovazione introdotta dal Movimento 5 Stelle. Rompendo la prassi che vede i presidenti designati in segretissime manovre di Palazzo, i grillini hanno per la prima volta consentito ai cittadini di scegliere direttamente il candidato preferito esprimendosi sul Web. Il risultato della loro votazione, primo arrivato Stefano Rodotà, nel 2013 non venne preso in considerazione dalle altre forze politiche. Vedremo cosa succederà stavolta. Certo che la novità una breccia nella tradizione comunque l'ha aperta.
R come rottamazione. E' la parola d'ordine che il premier Renzi sbandiera dalla sua discesa in campo. Dovrebbe significare il completo accantonamento di tutti quegli esponenti da troppo tempo sulla scena. Ma almeno sinora, per l'elezione in corso, la rottamazione non sembra essere applicata alla lettera. Anzi, vedere Renzi sfogliare rose di candidati con Giuliano Amato o il navigato Sergio Mattarella fa una certa impressione. Sembra proprio il vecchio che avanza.
T come telefonini. Grande invenzione, anche in Parlamento imperversano. E non solo per comunicare. Già nel 2013 se ne invocò l'utilizzo per controllare il voto degli onorevoli renitenti e i potenziali franchi tiratori. Ci fu chi chiese ai grandi elettori di fotografare la scheda per dar prova dell'obbedienza al partito. Una pratica vietatissima per i comuni mortali. A Montecitorio invece è abitudine consolidata. Il popolare Giuseppe Fioroni la utilizzò senza risparmio. Uscì dal catafalco con il palmare in mano e la foto della scheda bene in vista. Voleva dimostrare di aver votato Romano Prodi, come da indicazione del Pd. Ma il suo voto non bastò: ci pensarono i famosi 101 ad affondare il padre dell'Ulivo e a scrivere una delle pagine più nere della storia del partito.