È la variante più aggiornata di una storia antica. Sessant’anni fa e maledettamente attuale. Questa settimana noi della redazione non abbiamo alcun merito nell’aver coniato il titolo di copertina di un numero molto speciale. “Bruxelles corrotta Europa infetta” rappresenta un’esplicita citazione del più famoso “Capitale corrotta = Nazione infetta” pubblicato nel dicembre 1955. Ci piace celebrare così l’anniversario de “l’Espresso”. Scusate la presunzione.
Quel titolo originario fu un colpo di genio giornalistico dei padri fondatori. Disvelava il sacco di Roma a metà dei ’50, peccato originale della gracile democrazia repubblicana. Manlio Cancogni, il giornalista-scrittore autore della celebre campagna, recentemente scomparso, non lo amava più. Eppure è entrato nel linguaggio pubblico, citato non solo da generazioni di giornalisti, ma persino da esponenti politici. Un eponimo del giornalismo d’inchiesta e di denuncia.
Lo riproponiamo dunque per raccontare, con i servizi di Gianluca Di Feo, il grigio e il nero di Bruxelles, nuova capitale di una patria incerta; l’Europa meschina nell’affrontare il dramma dei migranti eppure così solerte nel venire incontro ai desiderata delle grandi concentrazioni industriali e finanziarie. I colossi automobilistici svettano, come lo scandalo Volkswagen insegna, nell’Olimpo dei potenti. A Bruxelles c’è un’immagine simbolo della corruzione europea: il palazzo di giustizia mai completato, i cui lavori di restauro sono bloccati da otto anni dopo una raffica di arresti - più di trenta - provocati da un’operazione di sistematico saccheggio del patrimonio immobiliare pubblico belga. Sembra di respirare aria di casa. In Italia siamo ai livelli più bassi di consenso verso le istituzioni europee. Il sentimento non è migliore nel resto del continente. Inquieta la cecità delle classi dirigenti di Bruxelles; assomigliano sempre più alla “Casta” nostrana. Un mondo chiuso lontano dai valori ispiratori dell’idea europeista. Senza neppure quel rigore nordeuropeo così ipocritamente contrapposto al lassismo mediterraneo.
Battersi dunque per rifondare l’Europa. Così com’è l’Unione rischia la disgregazione, screditata dai suoi stessi errori. Argomento formidabile nelle mani di populisti e nazionalisti dovunque sempre più agguerriti. Utopia? Anche se fosse, vale la pena provarci. Come per tante altre battaglie delle idee condotte nel passato.
Sessant'anni di giornalismo. Anzi un certo modo di fare giornalismo. Libero, laico, sfrontato. In equilibrio tra la denuncia e il sorriso. Innervato di passione civile, politica, culturale. Sempre coerente con la propria tradizione, nonostante i profondi cambiamenti avvenuti in Italia e nel mondo. È il Dna de “l’Espresso” di cui celebriamo i 60 anni di pubblicazioni. Il primo numero - che offriamo in omaggio ai lettori - porta la data del 2 ottobre; felice coincidenza con il venerdì di questa settimana, giorno di uscita in edicola. La nostra storia è testimoniata dai protagonisti di questa entusiasmante impresa editoriale: Eugenio Scalfari, Umberto Eco, Bernard Guetta, Giovanni Valentini, Giulio Anselmi, Daniela Hamaui, Bruno Manfellotto.
Ogni direttore ha lasciato una propria impronta lavorando con la redazione e le grandi firme che vi collaborano. Ma l’identità del giornale è rimasta fedele al patto costituente siglato nel lontano 1955 con le lettrici e i lettori. Intorno a “l’Espresso”, ieri come oggi, si è ritrovata una comunità di cittadini unita da un sentimento di appartenenza, perché ne condivide le battaglie civili, lo spirito d’indipendenza, la capacità critica. Il giornale insomma come bandiera - sia pure di carta - di un’Italia non rassegnata al declino economico e al disfacimento dei valori. Si dice che i giornali abbiano un’anima; il nostro l’ha conservata intatta negli anni, anche di fronte alle tumultuose trasformazioni che hanno investito lo stesso mondo dei media. Insomma, sessant’anni con lo sguardo sempre rivolto avanti.
Twitter @VicinanzaL