Paesaggi. Città. Deserti. Nelle foto del grande regista. Che qui spiega i suoi scatti da "romantico tedesco". E i suoi film in 3D

Wim Wenders
Polverosi cantieri al centro di Berlino, e fitte foreste nel Brandenburgo. Tramonti su deserti in Australia, e ombre spettrali su stradine in Montana. Sono i suggestivi, ma sempre inquietanti scatti di “time capsules“, la nuova mostra delle spettacolari fotografie di Wim Wenders, aperta sino al 14 novembre alla BlainSouthern di Berlino.

In questa intervista esclusiva il grande regista di “Paris, Texas” e del “Cielo sopra Berlino” ci parla del suo profondo amore per la fotografia e di “Ritorno alla vita”, il suo recentissimo film in 3D. Ma anche del suo rapporto con gli Stati Uniti e la sua «riavvenuta riconciliazione con la cultura e la società tedesca. «Sì, sono un incorreggibile romantico tedesco», confessa questo simpatico sognatore dall’alto dei suoi 70 anni e dei suoi ovali occhiali blu.

[[ge:rep-locali:espresso:285165140]]Partiamo dalle foto: si offende se la definisco “fotografo di paesaggi”?
«No, perché non mi ritengo tale. È vero: fotografo paesaggi di metropoli, deserti o pianure, ma ciò che mi interessa sono le tracce che gli uomini lasciano in questi luoghi. Mi sento più un “fotografo della civilizzazione”».

Da bambino sognava di fare questo mestiere?
«In un certo senso sì. Sono nato nell’agosto del ‘45 in una Düsseldorf ridotta a un mare di macerie. Solo guardando le riproduzioni dei quadri in camera da letto dei miei, ho capito che il mondo non era soltanto un cumulo di rovine. Da bambino volevo andare al museo per scoprire il mondo: quello reale, nella Germania della mia infanzia, non esisteva più».

È per questi traumi infantili che nelle foto non ci sono mai persone e l’atmosfera è da “The Day after“?
«Nelle mie foto, come nei quadri di Caspar David Friedrich, gli uomini compaiono di spalle. Non appena in un’immagine c’è un uomo, percepiamo il luogo attraverso la sua presenza. L’intenzione delle mie foto è che chi le guarda riveda il mondo come l’ho visto io mentre lo fotografavo, e cioè da solo, come “Il Monaco in riva al mare” di Friedrich».

Kleist diceva che i quadri di Friedrich insegnano a vedere il mondo come un occhio senza ciglia...
«I luoghi sono impregnati di storie, vogliono narrarcele ed aspettano solo chi le ascolti. Ecco, il fotografo è chi sa ascoltare in silenzio i racconti di un luogo e li trasporta con le sue immagini al pubblico».

Bruce Chatwin raccontava che gli aborigeni si orientano in Australia con una “Via dei Canti“. Non le pare una pretesa troppo mitologica per un artista del XXI secolo?
«Non dimentichi che sono anche un regista. Ma nel film, per quanto ti sforzi, i luoghi scompaiono a sfondo della trama e degli attori. Nella fotografia cerco di ribaltare i ruoli e di far diventare i luoghi i protagonisti dell’immagine».

Nei suoi capolavori - “Paris, Texas” ad esempio - il protagonista è spesso un nomade che non si identifica con nessuna città o Stato...
«L’artista è un nomade, e al contempo colui che riesce  a far parlare i luoghi delle città perché non ci vive né è prigioniero delle consuetudini. Qui a Berlino, la città in cui vivo, non conosco ad esempio che pochi musei».

Che genere di macchina usa per le foto?
«La mia è una fotografia completamente analogica. Per il formato più grande utilizzo la panoramica, uno strumento piuttosto pesante, ma è importante che sia sempre e solo io a trasportarlo: un assistente disturberebbe il dialogo che cerco con i luoghi. Per fotografare devo essere solo».

Nell’era dei selfie e dei profili su Facebook non è un modo troppo romantico per riprendere la realtà?
«Il mio modo di fotografare è agli antipodi dell’uso digitale della fotografia e dell’inflazione delle immagini nell’era di Facebook. La mia fotografia richiede l’immersione nel reale. Il digitale ci ha talmente allontanato dalla realtà che non riusciamo neanche a percepire quanto ne siamo distanti, né a distinguerla dal filtro virtuale con cui la vediamo. Oggi viviamo tutti il totale scambio tecnologia-realtà di cui parlava il mio film “Fino alla fine del mondo”».

Quel film di “fantascienza” è del 1991. È un caso che con “Il sale della Terra“ si sia dedicato ai quadri così realistici di Sebastiao Salgado?
«No, Salgado è il Pasolini della fotografia. Certo, non avrei potuto scattare nessuna delle sue immagini così politiche, ma proprio questo mi affascina nel modo in cui Salgado ha raccontato gli uomini e le loro sofferenze. La mia invece è una poetica legata ai luoghi e alle tracce degli uomini».

Dica la verità Wenders, oggi l’ispira di più girare un film o fotografare un deserto?
«Sono due volti molto diversi della stessa medaglia. Ho iniziato a fotografare da ragazzo, e sin dai primi anni ‘80 prendo sul serio la fotografia come lavoro complementare alla complessità del cinema. Sul set sei sempre insieme agli altri e dipendi dalla troupe per girare una storia; per questo è importante l’altra, e più solitaria metà di me stesso in cui sono solo con la macchina fotografica davanti al mondo».

Insomma, è l’ultimo dei Romantici: ma si definirebbe un artista tedesco?
«Oggi non posso fare a meno di definirmi come un artista tedesco. All’inizio non volevo far altro con i miei film che allontanarmi dalle strettoie della realtà e cultura tedesca. Ma il mio “esilio” in America mi ha fatto capire che non potevo sfuggirvi. È negli Usa che ho capito ed accettato di essere nel profondo un romantico tedesco».

Poi, nel 1987, con “Il cielo sopra Berlino“ ha fatto pace con la sua storia e cultura, giusto?
«Quel film segna una riconciliazione con la realtà tedesca, ma ancora precedente al crollo del Muro. Negli ultimi anni la capitale è mutata in tutta un’altra Berlino rispetto a quella che raccontavo in quel film».

Quale immagine ha conservato della Berlino degli anni del crollo del Muro?
«L’immagine della Berlino a cui sono più legato è una foto scattata nel 1992 nel vecchio quartiere ebraico (Wenders ce la mostra fra le foto di “time capsules”, n.d.r.): un muro scolpito da raffiche della seconda guerra mondiale. Ogni foto è una “capsula del tempo” e in quella Berlino erano ancora profonde le carie aperte nella bocca di questa città martoriata dalla storia».

Ritorniamo al cinema. Da “Tokio-Ga“ ai film su Pina Bausch e Salgado si è sempre dedicato ad altri artisti: un gesto di umiltà?
«Ogni artista è un’isola di originalità. Mi affascina il modo in cui Pina crea le sue coreografie. Così come ora mi affascinano le architetture di Peter Zumthor, l’architetto su cui sto girando il mio prossimo film».

Il suo ultimo film, “Ritorno alla vita“, è anche uno dei suoi più intimi o persino morali, non trova?
«Sì, al centro ci sono due questioni intime e radicali come la colpa e il perdono: come possiamo curare il senso di colpa e riuscire a perdonare? Nel film lo scrittore Tomas compie un atto molto “maschile”, cerca cioè di sublimare in modo creativo il suo senso di colpa scrivendone una storia. Per capire che alla fine c’è perdono solo se ci si apre realmente agli altri. Non credo però di aver girato un film moraleggiante, quanto di introspezione psicologica».

Perché ha scelto di girarlo in 3D?
«Perchè sono convinto che con questo formato ci si avvicini meglio ai nostri sentimenti e si penetri più a fondo nei meandri dell’animo umano. In 3D, come ai raggi x, proietti sullo schermo un’altra presenza dell’attore. Ed è una vergogna come solo il cinema d’azione abbia sinora sfruttato questa tecnologia a dir poco fantastica che, come ho cercato di mostrare in “Ritorno alla vita”, offre al cinema tutto un nuovo linguaggio e percezione della realtà».

Da ragazzo ha studiato arte: quanto sono importanti per il linguaggio dei suoi film e delle foto i quadri di un grande americano, Edward Hopper?
«Hopper ha raccontato nei suoi “paesaggi” urbani la solitudine nelle metropoli. E ha avuto il coraggio di dipingerle con il suo magico neorealismo quando tutti si immergevano nell’astrazione. E poi Hopper andava ogni giorno al cinema!»

E “L’uomo che andava al cinema”, per citare il romanzo di Walker Percy, ha ispirato la sua fotografia...
«Di più, visto che Walker Percy è il mio scrittore americano preferito, tradotto in tedesco fra l’altro dal mio amico Peter Handke».

Nel ‘68 lei aveva 23 anni e la sua generazione ha vissuto in pieno – basti pensare ad “Alice nelle città” del ‘73 – l’utopia del viaggio in America. Cosa ne è rimasto di quel “sogno americano”?
«Niente, quel sogno si è smaterializzato da solo davanti ai miei occhi come credo di aver raccontato in “La terra dell’abbondanza” e in “Non bussare alla mia porta”. Ma la mia generazione oltre al sogno americano aveva un altro e più profondo sogno».

Quale?
«Da ragazzi abbiamo sognato di vivere in una Europa senza più confini e controlli. Specie noi tedeschi eravamo accerchiati non solo dal nostro tragico passato, ma anche da confini e Muri. Una Europa unita era, per il giovane studente di arte Wim Wenders, l’utopia più sentita».

Peccato che oggi quell’Europa rialzi Muri contro i rifugiati. È fallita anche questa utopia?
«Sono tornato da pochi giorni da un viaggio negli Stati Uniti e devo dire che sono molto orgoglioso che sia la Germania che la Svezia si stiano dimostrando ospitali nei confronti dei profughi. Credo che i tedeschi, che 70 anni fa hanno seminato orrori e distruzioni in Europa, si stiano dimostrando ora all’altezza dei valori europei».

Berlino sta diventando per tanti rifugiati un vero “Cielo sopra l’Europa”...
«Berlino è un melting pot, nelle vie del centro non senti quasi più parlare il tedesco, ma tutte le lingue d’Europa. Oggi anche i giovani di Tel Aviv vengono qui a Berlino. Ripeto, so cosa significhi crescere in una città ridotta a cenere dalla guerra, anche per questo è giusto che i tedeschi accolgano i profughi che scappano dall’odio e dal terrorismo».

Che immagine si è fatto di Angela Merkel?
«Negli ultimi anni avevamo il fondato sospetto che si stesse trasformando, con la crisi dell’euro, in una Thatcher versione tedesca. Ma con l’emergenza profughi l’immagine della Kanzlerin sta cambiando, e se non sbaglio sta cambiando in meglio».

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