Una teocrazia che somiglia molto a '1984' di Orwell. In Francia il romanzo sul futuro dello scrittore algerino Boualem Sansal fa già discutere come quello di Houellebecq. L'autore racconta perché
Secondo Michel Houellebecq, il nuovo romanzo di Boualem Sansal “2084” (Gallimard), racconta un futuro molto più cupo e ancora peggiore di quello prefigurato nel suo “Sottomissione”. Il libro di Houellebecq, pubblicato lo scorso gennaio, il giorno prima dell’attentato contro la sede del settimanale satirico “Charlie Hebdo” a Parigi, ha scatenato parecchie discussioni, tra chi lo vede come un atto di accusa contro l’Islam e chi invece una denuncia della decadenza occidentale. Le polemiche su “2084”, che richiama esplicitamente il 1984 di Orwell, rischiano di essere ancora più violente.
Sansal inventa un regime totalitario religioso in un paese chiamato Abistan dove si parla l’abilang, una neolingua, come quella di Orwell, che ha cancellato tutte le lingue precedenti sospettate di aprire la mente. “2084” rappresenta la “grande guerra” contro la “miscredenza”: suona la campana a morto di tutte le civiltà precedenti e impone il regno del non-pensiero nella sottomissione obbligatoria alla volontà del Yölah e al suo rappresentante in terra, il profeta Abi.
Impossibile non obbedire agli ordini supremi: per chi tenta di sottrarsi le sanzioni sono frustate, lapidazioni ed esecuzioni negli stadi. Nell’Abistan non si fanno più domande, ma si ripetono soltanto automaticamente le parole di Abi e di Yölah che risuonano giorno e notte. “Andiamo a morire per vivere felici!”. Questo è il grido di guerra dell’esercito dell’ Abistan che fa eco a quello di Daech (il Califfato). L’unico barlume di speranza in questo incubo viene da Ati, deciso a sfidare il sistema che gli impedisce di pensare: spera così di varcare la frontiera proibita dietro la quale sopravvive un altro mondo.
Il libro è entrato nella selezione del premio Goncourt. Ma in Algeria non sembra proprio che le autorità possano apprezzarlo. Boualem Sansal, 66anni, vive a circa 50 chilometri da Algeri, e durante la guerra civile che ha devastato il paese a partire dal 1991 ha più volte condannato l’estremismo fondamentalista. Oggi subisce ancora delle minacce. E così i suoi familiari. Potrebbe cedere alla tentazione dell’esilio, ma sarebbe come dare ragione agli integralisti. E non ha mancato di criticare duramente anche il governo, che nel 2003 lo ha ripagato allontanandolo dal ministero dell’Industria, dove lavorava come alto funzionario. Sansal non è pubblicato nel suo paese, è totalmente ignorato dai media, è trattato come un paria. Ma viaggia in tutto il mondo, invitato a tenere conferenze nelle grandi università.
Sansal, Houellebecq le fa pubblicità... «Non mi fido di lui perché è comunque islamofobo. Alla fine del suo intervento televisivo in cui ha parlato del mio libro, ha detto che se avesse scritto oggi “Sottomissione” sarebbe molto più duro».
Lei perché non nomina mai l’Islam nel suo libro? «Le vicende che racconto nel mio libro si svolgono nel 2084. Penso che l’Islam si evolverà negli anni a venire. E diventerà poco a poco la religione dei convertiti».
Perché come modello ha scelto proprio “1984” di Orwell? «Avrei potuto scegliere il Ray Bradbury, di “Fahrenheit 451”, ma trovavo che l’universo immaginato da Orwell andava bene per il nostro tempo. E se si sostituisce il suo regime civile con un regime teocratico, questo funziona e spiega bene la natura del sistema».
Nel suo libro lei paragona l’islamismo al nazismo... «Lo stalinismo, il fascismo o il nazismo erano tutti sistemi che si somigliavano. Si fondavano su un partito unico e sul dominio totale sui cittadini. Facevano tabula rasa del passato, e inventavano una Storia. Tutti e tre questi regimi erano in evoluzione. Non hanno raggiunto lo stadio supremo in cui il capo appariva al tempo stesso invisibile, immortale e sovrumano. Tutti i regimi totalitari che abbiamo conosciuto convergevano verso questo punto di arrivo, ma nessuno lo ha raggiunto. Nel mio libro tutto è diverso e assolutamente inedito. Le dittature del passato erano politiche, qui invece sono religiose e il capo è invisibile pur essendo ossessivo».
Qualche anno fa lei si è recato in Israele per onorare un invito. Com’è stato invece il suo ritorno in Algeria? «Non è stato facile. Non se la sono presa direttamente con me, ma con la mia famiglia. Mia moglie, che è un insegnante, ha subìto una persecuzione. I genitori degli studenti hanno esercitato pressioni sul preside spiegando che non volevano che la moglie di un “sionista” facesse lezione ai loro figli. Mi accorsi che deperiva ed era infelice. Un giorno le ho detto di smettere di lavorare perché non ne avevamo bisogno. Oggi è rinata e viaggia insieme a me. Anche per mio fratello è stato molto difficile. Se la prendono con i miei parenti perché se attaccassero me direttamente sanno che vi sarebbero delle petizioni o scoppierebbero delle polemiche sui media internazionali: evitano così una cattiva pubblicità. È stato un periodo molto doloroso, però ho imparato a stare più vicino ai miei familiari».
Cosa rimane oggi della primavera araba? «Non resta nulla. Per me, la primavera araba non esiste. Una vera rivoluzione richiede una società matura. Ma per questo c’è bisogno di una vera élite, composta da intellettuali, filosofi, persone esperte che sanno parlare e organizzare. Non si è trattato di una lotta per il progresso, tutto si è esaurito soltanto in lotte per il potere».
L’Europa di oggi offre qualche speranza? «Credo che l’Europa sia alla fine del suo percorso, che sia giunta all’epilogo della sua logica. Ormai consiglio ai giovani studenti che vengono a trovarmi di andare negli Stati Uniti. Là, nell’ambiente universitario, si fa di tutto per permettere loro di lavorare. Ricordo una conferenza che ho tenuto a Berkeley: alla fine, il rettore mi propose di creare un mio laboratorio di ricerca, fornendomene subito i mezzi. In Europa questo è impossibile».