Era stata approvata Camera dopo la condanna di Strasburgo per i fatti della scuola Diaz. Ma la legge è caduta nuovamente nel dimenticatoio. Da cinque mesi, infatti, è ferma in Senato. E, intanto, la Corte europea sta esaminando alcuni ricorsi che potrebbero portare a nuove pesanti sanzioni per il nostro Paese

Caduta nel dimenticatoio. Ancora una volta. Sembrava che questa potesse essere la volta buona e invece pare proprio che il nostro Paese non voglia decidersi ad introdurre nel suo ordinamento penale il reato di tortura. Nonostante i mille propositi di governo e Parlamento, infatti, la legge è ferma ormai da oltre cinque mesi al Senato, in una melina estenuante finalizzata a «spedire la legge in soffitta e non parlarne più», come dice a L’Espresso Patrizio Gonnella, presidente di “Antigone”, una delle associazioni più attive a riguardo.

Eppure tutti ricorderanno il pressing dell’esecutivo ad aprile scorso per l’approvazione della legge. «Ciò che è accaduto attiene a una pagina nera nella storia del nostro Paese. E se vogliamo affrontare quella pagina nera, la prima cosa da fare è introdurre subito il reato di tortura», aveva detto lo stesso Matteo Renzi dopo la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo per i fatti della scuola Diaz al G8 di Genova del 2001. Detto fatto: due giorni dopo la condanna, sulla scia dello strazio e dello sdegno di tutti, la Camera dei Deputati licenziava il testo che poteva finalmente avviarsi al Senato per l’approvazione definitiva.

Da allora, però, è calato il sipario, il silenzio e pure l’impegno concreto, nonostante scontiamo un ritardo già di trent’anni, tra omissioni e negligenze, rispetto alla Convenzione delle Nazioni Unite del 1984, sottoscritta dall’Italia quattro anni dopo. Fa niente se nel testo, all’articolo 2, si dica chiaramente che «ogni Stato parte adotta misure legislative, amministrative, giudiziarie e altre misure efficaci per impedire che atti di tortura siano commessi in qualsiasi territorio sottoposto alla sua giurisdizione».

OBIETTIVO: NON APPROVARE IL TESTO
Parole al vento, dato che anche questa volta, dopo l’approvazione alla Camera, il testo a Palazzo Madama è praticamente sparito. Basti questo: dall’arrivo in Senato, la commissione Giustizia (presieduta dal forzista Francesco Nitto Palma) si è riunita solo sette volte. In pratica, una seduta al mese.

Ma non è tutto. «Il testo non solo si è bloccato – commenta Gonnella – ma, pur vedendosi pochissime volte, al Senato sono stati capaci di peggiorarlo rispetto a quello che era stato approvato dalla Camera, che già di per sé era frutto di un compromesso al ribasso». Insomma, siamo lontani anni luce dalle direttive Onu e comunitarie. 

Come L’Espresso aveva già documentato, infatti, il testo licenziato da Montecitorio introduceva sì il reato di tortura ma lo faceva restare un reato comune, imputabile dunque a qualunque cittadino, e prevedeva pene molto basse soprattutto se raffrontate a quelle di altri Paesi.
Inchiesta
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«Ma al Senato si sono superati», commenta sconsolato Gonnella. Sono state approvate modifiche per le quali, ad esempio, affinché si possa parlare di tortura, devono essere commesse più violenze. «È stato messo il plurale: una sola violenza non basta per configurare una tortura. Senza dimenticare – continua il presidente di Antigone – che è stato deciso che quando si produce una sofferenza psichica, questa deve essere verificabile. Il che è ovviamente impossibile, specie se, come accade spesso in Italia, i processi durano anche dieci anni». Insomma, al Senato tra rallentamenti e peggioramenti, il testo è ormai bello che morto: «l’obiettivo è non approvarlo mai, o tramite melina oppure peggiorandolo a tal punto che poi si dica che questo testo così com’è non può essere approvato perché troppo distante dalle indicazioni che aveva dato l’Onu sul reato di tortura».

IL RISCHIO CONCRETO DI NUOVE CONDANNE
Intanto, però, dall’Europa potrebbero arrivare presto nuove condanne per violazione dei diritti umani e maltrattamento dei detenuti. E, paradosso dei paradossi, a quanto pare il nostro Paese è consapevole del rischio. Pochi giorni fa è stata presentata al Parlamento la «Relazione sullo stato di esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo nei confronti dello Stato italiano». Dal report emergono alcuni dati interessanti, a cominciare dal fatto che contro il nostro Paese sono stati presentati ben 10.100 ricorsi. Una cifra sbalorditiva se si pensa che siamo secondi solo all’Ucraina (13.650). Contro di noi, dunque, più procedimenti rispetto anche a Stati come la Russia (10.000) o la Turchia (9.500).

Ma il punto è un altro. Tra i vari procedimenti aperti spuntano anche «casi relativi ai disordini durante il Vertice G8 di Genova». Secondo il rapporto, infatti, la violazione del divieto di tortura e di trattamenti disumani in relazione al comportamento tenuto dalle forze dell’ordine al G8 di Genova è oggetto di altri due ricorsi pendenti alla Corte, proposti complessivamente da 31 soggetti, tra cittadini italiani e stranieri, arrestati e detenuti nella caserma di Bolzaneto. I magistrati dicono chiaramente che «il contesto fattuale dei due ricorsi è assimilabile a quello che ha dato luogo alla pronuncia di condanna della Corte europea resa il 7 aprile 2015».

Ma non è finita qui. Nella relazione, poco più avanti, si legge che risultano depositati «ulteriori affari non ancora comunicati al Governo italiano». Affari che «aggravano il quadro delle possibili, future condanne a carico dell’Italia». Parliamo di casi in cui è emerso un «uso sproporzionato della forza da parte delle forze dell'ordine nei confronti di persone sottoposte a restrizione e mancanza di indagine effettiva».

Tra i vari procedimenti, ad esempio, c’è il «caso Saba». Siamo nel 2000, nel carcere di Sassari. In occasione di un’operazione di perquisizione generale, si registrarono episodi di violenza fisica e morale nei confronti dei detenuti. Le indagini che seguirono portarono alla richiesta di rinvio a giudizio per ben 90 agenti della polizia penitenziaria. Dei 61 imputati che optarono per il rito abbreviato, solo dodici furono condannati a pene, tutte con sospensione, da quattro mesi ad un anno e mezzo di reclusione per i delitti di violenza privata aggravata e abuso di autorità contro arrestati e detenuti. Le condanne divennero definitive soltanto per nove di loro. Quanto ai rimanenti 29 imputati che non scelsero il rito abbreviato, nove vennero rinviati a giudizio e poi assolti o prosciolti per intervenuta prescrizione, mentre per i restanti venti fu pronunciata sentenza di non luogo a procedere.

Diverso sarebbe stato, probabilmente, se l’Italia avesse avuto nel suo codice penale il reato di tortura. Ed ecco perché ora rischiamo nuove pesanti sanzioni. E lo Stato è consapevole di questo pericolo, tanto che – si legge ancora nella relazione - «è all'attenzione delle competenti amministrazioni l'ipotesi di una soluzione bonaria del contenzioso, per scongiurare il rischio di ulteriore condanna per violazione del divieto di tortura». Ma fa niente: meglio pagare e collezionare figuracce, piuttosto che introdurre una legge che si aspetta da trent’anni. Tanto poi, alla prossima condanna, una nuova ondata di sdegno ci farà avere l’impressione che le cose stiano cambiando ancora. Prima di tornare al solito silenzio. Lo stesso da trent’anni a questa parte.