Erdogan vuole davvero portare in Europa il suo paese, visto che attualmente è ben lontano dagli standard comunitari? Il processo di adesione è già costato 10 miliardi di euro. Un fiume di denaro che qui ricapitoliamo, voce per voce

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Tre miliardi di euro. È la cifra che l’Unione europea si è impegnata a riconoscere alla Turchia in cambio della collaborazione di Ankara per frenare i flussi dei profughi in fuga dalle guerre verso occidente. Un pacchetto di aiuti finanziari ancora da definire nei dettagli e che si somma ai soldi già erogati in passato a un Paese dove si contano oggi circa due milioni di rifugiati, trecentomila dei quali ospitati nei campi. Mentre un milione e 400 mila persone, stando alle stime di Amnesty International, si trovano a ridosso del confine turco, respinte dalla polizia del presidente Recep Tayyip Erdogan, col suo partito fresco vincitore delle recenti elezioni di inizio novembre. La partita dei profughi si innesta sull’annosa questione dell’adesione della Turchia all’Unione europea. Erdogan, forte del ruolo che sa di poter giocare nella gestione dei flussi migratori e di una teorica promessa di Angela Merkel (prima riluttante al pari dei francesi, Sarkozy in testa quando era presidente), fa pressione per accelerare l’ingresso e ha recentemente dichiarato: «Per noi continua a essere una scelta strategica. Chiedo che il processo di adesione sia liberato da barriere politiche artificiali e sia rivitalizzato».

Al di là delle posizioni di principio c’è da chiedersi tuttavia se la Turchia voglia davvero entrare in Europa, visto che le recenti decisioni del suo esecutivo la allontanano dagli standard comunitari in materia di democrazia e diritti umani. Il suo processo di adesione è già costato circa dieci miliardi di euro dal momento in cui è cominciato. Un fiume di denaro che qui ricapitoliamo, voce per voce.
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Tutto inizia nel 1959 coi primi accordi di collaborazione con l’allora appena costituita Comunità economica europea (Cee). Nel 1964 il Primo Accordo di Associazione e nel 1996 il varo dell’Unione doganale. Le tappe fondamentali sono però quella del 1999, quando alla Turchia viene ufficialmente riconosciuto lo status di Paese candidato e quella del 2005, quando si aprono i negoziati per l’adesione: ma per aderire è necessario rispettare i cosiddetti “Criteri di Copenhagen”. Ed è da allora che, per agevolare il loro raggiungimento, l’Ue fornisce “assistenza” alla Turchia, tecnica e soprattutto finanziaria: 250 milioni di euro nel 2004 al fine di implementare le riforme per richiedere l’adesione, 300 milioni nel 2005 anno di apertura dei negoziati e 500 milioni nel 2006 per l’avvio delle riforme.

Nel periodo 2000-2006, la Turchia può inoltre contare su risorse attivate attraverso altri programmi tra cui il MEDA - il più rilevante in termini di finanziamenti - che per il periodo indicato garantisce un’assistenza finanziaria pari a circa 900 milioni di euro. A partire dal 2007 viene poi introdotto un nuovo strumento di assistenza ad hoc per i paesi candidati: l’IPA I (Instrument for Pre-Accession Assistance) volto principalmente a sostenere il rafforzamento delle istituzioni, lo Stato di diritto, i diritti umani - comprese le libertà fondamentali - i diritti delle minoranze, la non discriminazione e lo sviluppo sociale.

Si tratta di uno strumento settennale, 2007-2013, il cui ammontare assegnato alla Turchia è stato di 2,5 miliardi di euro, a cui ha fatto seguito l’IPA II per il periodo 2014-2020 e pari questa volta a 4,5 miliardi di euro. Inoltre la Turchia, è l’unico fra i Paesi candidati ad attingere anche al Fondo europeo per lo sviluppo del bacino del Mar Nero con un’assegnazione di 10 milioni su un totale di 49 milioni. A ciò si aggiungano altri 25 milioni in condivisione con la Bulgaria, di cui la Turchia beneficerà in virtù della sua partecipazione al Fondo europeo di Sviluppo Regionale.
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Tutto questo senza contare gli altri programmi di finanziamento a cui la Turchia, anche se non è ancora un membro Ue, può partecipare e attingere: si tratta dei fondi a gestione diretta ripartiti in base a programmi tematici e volti più in generale alla realizzazione degli obiettivi della Strategia di Lisbona che ammontano, per il 2014-2020, a quasi 200 miliardi, inclusi il Fondo asilo e migrazione il cui budget complessivo era stato di 4 miliardi nel periodo 2007-2013 ed è di 3,1 miliardi nel periodo 2014-2020 .

A ciò vanno aggiunte le agevolazioni per la crescita economica di un Paese che è di fatto già una potenza economica. Si tratta ad esempio dei finanziamenti erogati alla Turchia dalla Banca europea degli investimenti (Bei) che, nel periodo 2007-2011 sono stati pari a 11,5 miliardi di euro: di qualche giorno fa poi, la notizia che la Bei ha ampliato il suo sostegno alle piccole e medie imprese (Pmi) turche attraverso l’estensione di tre linee di credito alle tre maggiori banche per un ammontare complessivo di 300 milioni. Grazie inoltre alla recente adesione al Programma COSME 2014 - 2020 varato dalla Commissione Europea per favorire la competitività delle PMI sui mercati nazionali ed esteri, la Turchia potrà attingere ai relativi finanziamenti, che per il periodo sono pari complessivamente a 2,3 miliardi.

A fronte dei cospicui aiuti finanziari assegnati alla Turchia dall’Unione europea per colmare il deficit di democrazia e, più in generale, per il raggiungimento dei criteri di Copenhagen, suona piuttosto male quanto pubblicato dalla Commissione europea sia nell’ultimo “progress report” 2014 sulla Turchia sia su quello di mid-term di giugno 2015, dove sono riportati i progressi fatti dal candidato e le carenze ancora da colmare per diventare membro Ue a pieno titolo. I punti di maggiore criticità, gli ambiti in cui la Turchia non è ritenuta essere ancora “matura” sono infatti i capitoli relativi al “Sistema giudiziario e ai diritti fondamentali”, alla “Libertà di informazione e dei media” oltre ad “alcune sezioni” dei cosiddetti “criteri politici”, in particolare quelle che riguardano i “principi di democrazia, lo Stato di diritto, i diritti umani e la protezione delle minoranze” che, nell’insieme, costituiscono di fatto le “condizioni sine qua non” per poter accedere all’Unione.

E gli ingenti finanziamenti Ue paiono ancora più ingiustificati se si considera che, a differenza degli altri Paesi candidati, la Turchia è oggi uno dei MIST (Messico, Indonesia, Sud Corea e appunto Turchia), le nuove potenze economiche emergenti: vanta infatti un tasso di crescita medio del Pil che, negli ultimi tre anni, è stato del 5,5 per cento contro lo 0,9 dell’Ue, oltre ad un ammontare di investimenti diretti dall’estero che negli ultimi sette anni è stato di oltre 90 miliardi di dollari, di cui il 75 per cento provenienti dai Paesi Ue.

A questo si aggiunga che, pur di tutelare i propri interessi economici, la Turchia ha recentemente condotto e concluso con la Russia un accordo per la costruzione del gasdotto “Turkish Stream”, del tutto incurante delle sanzioni imposte alla Russia dall’Europa e alle quali, in qualità di Paese candidato, avrebbe dovuto soggiacere.

Da ultimo, ma non meno significativo, la Turchia è anche una potenza militare: nel 2014 la spesa militare è stata all’incirca di 20 miliardi di dollari e negli ultimi tre anni si è attestata intorno al 2,2 per cento del Pil, quando la media dei paesi Nato in Europa è dell’1,6.

Dunque, alla Turchia, le risorse finanziarie non paiono mancare. Ed è altrettanto evidente che ciò che il denaro - inclusi gli aiuti finanziari di Bruxelles - non riesce a garantire, è essere una democrazia. Lo dimostrano i fatti degli ultimi anni: imposizione dell’insegnamento religioso islamico sunnita in tutte le scuole - nonostante la Turchia si definisca uno Stato laico e nonostante la Costituzione turca preveda la libertà di religione e di coscienza - con conseguente condanna della Turchia da parte della Corte europea dei Diritti Umani; mancata risoluzione della questione cipriota; negazione del genocidio armeno; gli scontri di piazza Taksim, oltre a una continua e manifesta intolleranza dimostrata dal governo di Erdogan verso oppositori e minoranze, curdi in primis. Non è un caso che secondo il Democracy Index 2014 dell’“Economist” la Turchia sia scesa nel ranking al 98° posto e non sia più considerata una “democrazia imperfetta” ma un “regime ibrido”.

Proprio a causa di tutte queste questioni aperte e al fatto che gli “acquis” comunitari sono ben lontani dall’essere raggiunti, è lecito chiedersi se la Turchia di Erdogan, che sta evidentemente giocando su più tavoli, sia realmente intenzionata a far parte dell’Unione. Con tutti i benefici ma anche i vincoli che questo comporta.