Realtà virtuale, notizie intelligenti, social network: lo scenario dell’informazione digitale si frammenta in forme diverse e offre contenitori inediti ed esperienze sempre più ricche. Al centro del cambiamento, le grandi piattaforme della rete. Mentre editori e testate stentano a trovare un'identità
Siamo da tempo immersi in una realtà sempre più digitale eppure, nel 2015, i giornalisti scrivono secondo gli obsoleti schemi della carta stampata. Una visione dell’informazione monodimensionale, “longitudinale”, che costringe autori e redattori a rielaborare ogni giorno pezzi di storie già scritte, a seguire un flusso di lavoro redazionale ripetitivo e statico quando la tecnologia e gli strumenti disponibili consentirebbero una vera e propria rivoluzione.
A scriverlo, in una semplice ma dettagliata analisi, è la divisione Sviluppo e Innovazione del New York Times, gli Nyt Labs. Secondo il più prestigioso giornale del mondo, anche gli sforzi innovativi in questo settore provenienti dalle più avanzate realtà del mondo digitale, da Facebook ad Apple, non fanno altro che riproporre un formato vecchio, il formato della “storia unica”, dove sono indistinguibilmente miscelate le notizie, le analisi, le opinioni e dove le porzioni importanti e riutilizzabili delle informazioni non sono separabili dalla forma che le contiene.
“Particles” è la soluzione proposta dai Labs: distinguere i contenuti che possono avere un interesse anche per il futuro dalla forma e dalle opinioni. In che modo? Creando per le sole notizie dei pacchetti informazionali ricchi di dati aggiuntivi, i cosiddetti “metadati” (data, luogo, autore, fonte, etc..), che possano consentirne un riutilizzo semplice e informatizzato. Un’informazione strutturata, capace di essere gestita e utilizzata, attraverso appositi strumenti informatici, con efficienza, velocità e facilità.
Un cambiamento, quello proposto dal Times, teorizzato già nel 1995 dalla On line Computer Library Center e definito un decennio fa in un protocollo, il
Dublin Core Metadata Initiative poi rilanciato, con riferimento ai giornali da Adrian Holovaty, un ingegnoso e lungimirante giornalista-imprenditore che ha fondato alcune startup digitali di successo come EveryBlock e Soundslice. Holovaty notava come la struttura dell’articolo di un giornale fosse «Un insieme caotico di testo che non ha alcuna possibilità di essere riutilizzato».
Attraverso queste informazioni aggiuntive, i pacchetti di informazione potrebbero essere facilmente archiviati, ricercati in base a un valore, resi interscambiabili e standardizzati per l’uso collaborativo in un ambiente di lavoro comune come quello di una redazione o di un gruppo editoriale. Un sistema di gestione che garantirebbe la possibilità di scrivere articoli ricchi di informazioni e navigabili su più dimensioni: il giornalista potrebbe raccontare una storia senza doverla riscrivere, potendo utilizzare le informazioni disponibili e organizzate, concentrandosi quindi sulla parte che al cervello umano riesce meglio, la creatività e la narrazione.
Il problema è che le redazioni e gli editori hanno sempre fatto fatica a staccarsi dai modelli comunicativi ed economici
della carta stampata. È stato più semplice per i giornalisti trovare fuori dagli strumenti istituzionali della redazione il modo per scoprire e scambiarsi informazioni, come quando hanno iniziato a utilizzare, a partire dal 2006, pacchetti standard da 140 caratteri, classificabili attraverso gli hashtag su Twitter. Un cambiamento “dal basso” di fronte alle inadempienze e incapacità storiche che hanno portato i giornali a vivere, in relazione all’innovazione e al digitale, in uno stato di crisi di identità pressoché cronica.
Crisi che oggi porta un esperto come
Jeff Jarvis, docente di nuovi media alla Scuola di Giornalismo della New York University,
a insegnare ai propri studenti del corso di Giornalismo imprenditoriale che
una nuova attività di informazione digitale non deve passare attraverso la realizzazione di un nuovo sito, ma
può essere costruita integralmente all’interno di una piattaforma social come Facebook, in considerazione del fatto che: «Su alcuni siti di news americani solo il dieci per cento del pubblico giornaliero visita la home page, che è così amorevolmente e costosamente costruita con il buonsenso dei professionisti dell’informazione».
Al disaffetto dei lettori si possono sommare altri fattori che determinano la crisi dei siti dei giornali, come l’opportunità. Il fatto, ad esempio, che
Instant Articles, la piattaforma integrata di Facebook per la gestione delle news, consente agli editori di pubblicare direttamente i propri contenuti all’interno del social, condividendone le entrate pubblicitarie e migliorando l’esperienza del lettore. Un articolo pubblicato dentro Instant Articles, infatti, viene caricato dalle 3 alle 5 volte più velocemente rispetto all’apertura di un link dal sito. Tanto che, come ricorda Jarvis,
il Washington Post ha iniziato a pubblicare tutti i suoi articoli direttamente in Instant Articles.
Molti editori però temono, entrando nel “giardino recintato” di Facebook, di perdere il controllo dei dati (e metadati) dei propri utenti e divenire, di fatto, nulla più che produttori di contenuti per la piattaforma social. Anche perché quei dati sono preziosissimi per poter gestire le proprie attività di marketing e pubblicitarie.
Il motivo per cui i colossi del web sono così interessati al controllo del flusso informativo è che
le notizie sono divenute la vera valuta di scambio del mondo sociale digitale. Le comunità crescono, interloquiscono e agiscono sulla base di commenti e interazioni su quello che accade intorno a loro, ovvero le notizie. E il tempo dell’interazione, il tempo speso all’interno di una piattaforma è divenuto il vero elemento di interesse per i pubblicitari.
Anche Apple, con la nuova piattaforma “Apple News”, ha deciso di scendere in campo per non rimanere fuori da questa corsa. Apple News è un po’ aggregatore un po’ piattaforma di pubblicazione e offre agli utenti una selezione di notizie in collaborazione con alcune delle testate internazionali più importanti, come Financial Times, The Economist, Cnn, Npr e New York Times che, anche qui, possono pubblicare direttamente i propri articoli. Anche Google, in relazione alla gestione dei flussi informativi, ha elaborato una serie di strategie, in parte innovative in parte compensative.
Alcuni giorni fa Google ha annunciato Amp (Accelerated Mobile Pages), una sorta di linguaggio leggero per il rendering delle pagine web che consente una rapidità impressionante di caricamento delle pagine sulle piattaforme mobile (smartphone e tablet) da cui ormai oltre il 30% dei lettori accede alle notizie. In realtà Amp è una versione del linguaggio standard html privata di tutti quegli elementi che ne rallentano il caricamento, come codice javascript, elementi iframe, porzioni grafiche di fogli di stile: le pagine sono più essenziali e veloci, ma al tempo stesso mantengono un look e una fruibilità soddisfacenti.
Amp è un progetto lanciato da Google nell’ambito della
Digital News Initiative, associazione fondata alcuni mesi fa da Google e otto testate europee (La Stampa, Faz, Die Zeit, El Pais, il Guardian, Financial Times, Les Echos e Nrc) con l’obiettivo di migliorare l’ecosistema informativo rendendolo sostenibile. Ma il progetto è aperto a tutti gli editori che intendono parteciparvi. Inoltre, Amp è open source, ovvero il codice è aperto e disponibile a tutti sulla piattaforma Github.
L’impegno di Google sul fronte dell’innovazione e della sostenibilità dell’informazione è molteplice: in questi giorni sempre nell’ambito della Dni, il motore di ricerca ha lanciato un Fondo per l'Innovazione con una dotazione di 150 milioni di euro e un bando aperto a organizzazioni e singoli per supportare e dare impulso alle novità nel mondo dell'informazione.
I
Google Cardboards consentono di usare il proprio smartphone per la realtà virtuale. E non è finita qui. Google, che ha prodotto una serie di device ultra-economici per accedere e visualizzare il mondo della realtà virtuale in 3D, collabora con il New York Times, che sta inviando a casa del suo milione di abbonati digitali uno di questi Google Cardboards.
Gli abbonati potranno visualizzare un docu-film realizzato dal NYT in realtà virtuale, “Gli sfollati”, sui bambini vittime della guerra sradicati dalle loro terre di origine. “È il primo pezzo di giornalismo critico e serio, creato usando la realtà virtuale, per far luce su una delle crisi umanitarie più terribili dei nostri tempi”, ha affermato
Dean Baquet, direttore del Times.
Abbiamo sinora parlato di Google, Facebook, Apple, New York Times. Ovvero delle realtà più grandi e significative del web e dell’informazione digitale. Mondo dell’informazione formato da migliaia di editori, testate piccole, medie e grandi, che vive da tempo una crisi strutturale legata alla mancanza di un modello economico sostenibile. Un modello economico che ancora si regge sui meccanismi che sostenevano il business della carta stampata: la circulation (copie vendute) e l’advertising (pubblicità). Entrambi sono venuti a mancare.
Mentre era relativamente semplice determinare il valore di un quarto di pagina di pubblicità su un giornale locale che stampava 30mila copie e il suo Ritorno di Investimento, oggi
la frammentazione del mercato pubblicitario tra centinaia di piattaforme web raggiungibili da ciascun utente e la mancanza di valori oggettivi (metriche) che determinino l’effetto della pubblicità sugli utenti hanno enormemente ridotto il valore di questa voce di ricavo nei bilanci editoriali. Come il numero delle copie vendute che per la carta si riduce costantemente, mentre online tutto è gratuito e accessibile.
La convinzione diffusa tra gli esperti è che ciascuna realtà editoriale debba e possa trovare un mix di entrate in relazione al tipo di informazione e di servizi che offre.
In generale quella che appare sempre meno sostenibile, in questi ultimi anni, è la formula della gratuità delle notizie. Sono molte le testate, dal Financial Times al Wall Street Journal, allo stesso New York Times, al Daily Telegraph e al Times, che hanno implementato per il loro sito web un accesso a pagamento, tecnicamente chiamato
“paywall”.
Martin Sorrell, Ceo di Wpp, la più grande multinazionale di pubblicità al mondo, ha affermato che “quella è la strada”. Per Sorrell il cambiamento del mercato pubblicitario online e l’introduzione di quei programmi che bloccano la pubblicità sui siti web (Ad blocker) riducono enormemente le aspettative di ricavi pubblicitari e, quindi,
la strada giusta è quella di vendere le notizie, le storie, a chi è disposto a pagarle e trarre così il ricavo necessario a sostenere il proprio business.
Staremo a vedere, ma non possiamo nel frattempo negare che l’informazione e i processi che la governano sono sempre più accentrati e controllati da poche potenti aziende multinazionali.