I mutamenti climatici cambiano il mondo: l'Italia sarà tropicale
Le coltivazioni tradizionali sostituite da frutta esotica. Mentre gli ulivi arrivano fino alla Valtellina. E le zanzare portano malattie africane. Ecco come l’aumento delle temperature sta già modificando flora e fauna del nostro Paese
Banane di Sicilia, olio extravergine delle Alpi, pomodori padani. Ma anche febbri tropicali, litorali scomparsi, stambecchi senza cibo. I mutamenti climatici stanno cambiando i connotati dell’Italia e del mondo. E minacciano di farlo ancora più significativamente nei decenni a venire: alla vigilia della ventunesima Conferenza sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite, da cui dovrebbe arrivare la firma del primo accordo universale e vincolante sul clima, è ormai chiaro che il nostro paese è un hot spot del cambiamento climatico, un luogo nel quale già oggi si registrano pesanti influenze dell’aumento delle temperature su agricoltura, alimentazione, salute, turismo. Ecco quello che sta già accadendo.
VICINI ALLA SOGLIA CRITICA
Gli effetti dei cambiamenti climatici sono particolarmente evidenti in Italia, perché il bacino del Mediterraneo è una delle zone in cui il riscaldamento globale ha iniziato a mostrarsi precocemente. A partire dall’800, la temperatura nel nostro paese è salita in media di un decimo di grado ogni 10 anni, e negli ultimi decenni il fenomeno si è velocizzato: l’Italia, oggi, è di un grado più calda rispetto agli anni Sessanta.
Nel 2014 si è segnato il record di sempre (1,45 gradi in più rispetto alla media) e il 2015 sembra destinato a confermare il trend: il luglio appena trascorso è stato infatti il più torrido della storia, con 3,6 gradi oltre la media di questo decennio. Quando l’aumento di temperatura sarà stabilmente oltre i due gradi in più rispetto all’era pre-industriale, ammonisce l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) delle Nazioni Unite, i cambiamenti climatici potrebbero diventare irreversibili.
RADDOPPIANO LE MORTI PER ASMA
Dengue e febbre del West Nile sono malattie comuni nelle zone tropicali, ma probabilmente dovremo farci l’abitudine anche dalle nostre parti. Trasmesse da zanzare e altri insetti che prosperano grazie al caldo, queste nuove patologie si stanno infatti radicando anche nel nostro paese.
Nel 2008 erano 12 i casi di dengue registrati in Italia, ma sono aumentati velocemente passando a 51 nel 2010 e a 74 nel 2012. Simile la situazione anche per la malattia neuroinvasiva da West Nile, originaria dell’Africa Orientale: 8 casi nel 2008, saliti a 44 nel 2013. Anche le allergie si fanno sempre più comuni a causa del global warming, che ha allungato la stagione di fioritura di molte piante, come la parietaria o il cipresso, aumentando da 10 a 100 volte la concentrazione dei pollini nell’aria.
«Il risultato», spiega Vincenzo Patella, direttore della Task Force sui cambiamenti climatici della Società italiana di allergologia, asma ed immunologia clinica, «è che negli ultimi dieci anni il numero di allergici è raddoppiato: oggi sono il 20 per cento della popolazione italiana, e si prevede che diventino il 60 per cento nel 2050». Anche l’asma è sempre più frequente: i casi sono aumentati del 60 per cento rispetto agli anni Ottanta, e le morti raddoppiate.
QUANDO NON CRESCERÀ PIÙ IL FRUMENTO
Non è una critica alla politica nazionale, ma una constatazione agricola. L’aumento delle temperature ha permesso infatti di avviare la coltivazione di frutti tropicali, un tempo assenti in Italia, e la Sicilia si è rivelata particolarmente adatta per le banane, tanto che a Palermo ha oggi sede il più grande produttore del paese. Ma non solo.
Come spiega Stefano Masini, responsabile dell’Area Ambiente di Coldiretti, è l’intero paesaggio agricolo del nostro paese ad essere mutato radicalmente. La coltura della vite si è spostata sempre più a nord: nei comuni di Morgez e La Salle, in Valle d’Aosta, a circa 1.200 metri di quota, oggi si producono ad esempio i vini più alti d’Europa.
L’ulivo, dal canto suo, ha raggiunto la Valtellina, mentre pomodori da conserva e grano, che prima si fermavano più o meno in Toscana, oggi sono coltivati con successo in tutta la pianura Padana. Oltre a mutare la geografia delle colture, i cambiamenti climatici stanno portando nei nostri campi batteri e insetti tropicali infestanti, che trovano le temperature perfette per proliferare: come il punteruolo rosso, un parassita delle palme di origine africana, e la drosofila del ciliegio, originaria del continente americano.
O ancora la temuta Xilella fastidiosa, che ha devastato gli ulivi del Salento anche grazie alle temperature estremamente miti dello scorso inverno. «Nei prossimi decenni, l’impatto sull’agricoltura italiana rischia di essere pesantissimo», spiega Domenico Pignore dell’Istituto di genetica vegetale del Cnr di Bari.
Un buon esempio, aggiunge l’esperto, è il grano, pianta simbolo della cultura italiana. «Le coltivazioni oggi si stanno spostando progressivamente verso il nord, ma se non interverremo, nei prossimi 50 anni il frumento rischia di sparire dalla nostra penisola, con danni incalcolabili da un punto di vista culturale ed economico».
PIÙ PAPPAGALLI, MENO STAMBECCHI
Abita i boschi e le pianure in quota delle Alpi, e per proteggersi fa affidamento sulla sua pelliccia: bianca in inverno, per mimetizzarsi con la neve, e bruno rossastra in estate, come le rocce e le piante tra cui si muove. Con le stagioni ormai impazzite, l’ermellino si trova però ad indossare sempre più spesso la pelliccia sbagliata quando si sciolgono le nevi, in primavera, divenendo facile bersaglio dei suoi predatori.
Un altro caso emblematico è quello dello stambecco: le piante di cui si nutre germogliano anticipatamente, e sono povere di sostanze nutritive fondamentali. La conseguenza è un forte aumento della mortalità durante lo svezzamento, passata dal 50 per cento degli anni Ottanta a più del 75 per cento dei giorni nostri.
Sono alcuni degli esempi contenuti nell’ultimo report del Wwf, che evidenzia gli effetti nocivi dei cambiamenti climatici sulla fauna italiana. Tra questi, i più evidenti sono la diffusione di specie non autoctone, solitamente di origine tropicale, come i pappagalli ormai di casa nelle città del Centro-Sud, o le meduse che sempre più spesso invadono le acque e le spiagge italiane.
Come nel 2013, quando un enorme banco di Pelagia noctiluca, piccola medusa di colore violetto estremamente urticante, ha letteralmente invaso le spiagge dell’Isola d’Elba, mettendo in fuga i bagnanti e provocando diversi ricoveri a causa delle sue punture.
C’ERANO UNA VOLTA LE ALPI INNEVATE
Riscaldamento globale vuol dire (anche) addio ghiacciai. Un fenomeno cui l’Italia non è immune, come spiega Claudio Smiraglia, professore di geografia fisica e geomorfologia all’Università degli Studi di Milano e coautore del “Nuovo catasto dei ghiacciai italiani”, il documento che raccoglie e cataloga le informazioni relative ai sistemi glaciali del nostro paese: «Siamo di fronte a un collasso: per tutti i ghiacciai dell’arco alpino, così come per i due piccoli ghiacciai del Gran Sasso, si è registrato un regresso del 30-33 per cento rispetto agli anni Sessanta».
Poco più di mezzo secolo fa, i ghiacciai delle Alpi si estendevano su 370 chilometri quadrati, una superficie pari a quella del lago di Garda; a oggi se ne sono persi oltre 160 chilometri quadrati, più o meno quanto il lago di Como. «L’acqua dei ghiacciai», continua Smiraglia, «è passata dallo stato solido allo stato liquido e poi non è stata sostituita, perché le nevicate sono diventate sempre più rare».
Un fenomeno che sta modificando notevolmente la biodiversità dell’orizzonte alpino: la vegetazione - soprattutto aghifoglie e larici - sale sempre più di quota, colonizzando gli spazi una volta occupati dai ghiacci e alterando gli equilibri naturali dell’ecosistema. Invertire la tendenza sembra molto difficile, se non impossibile: «Anche se riuscissimo a stabilizzare le emissioni di gas serra», ammonisce Smiraglia, «ci vorranno decenni prima che l’atmosfera reagisca di conseguenza. Nel frattempo, probabilmente, la maggior parte dei ghiacciai italiani sarà scomparsa: non resteranno che pochi lembi di ghiaccio, parzialmente coperti da detriti, alle quote più alte».
VERSILIA SOTT’ACQUA
Venezia, Versilia, le saline di Trapani, il cagliaritano: sono solo alcune delle 33 zone che corrono il rischio di essere allagate entro il 2100, a causa dell’innalzamento del livello del Mediterraneo. A raccontarlo è uno studio di Fabrizio Antonioli, del Centro Ricerche Casaccia dell’Enea, e le previsioni dell’Ipcc, secondo cui le acque italiane si solleveranno di 50 centimetri nei prossimi cento anni per effetto dei soli cambiamenti climatici.
A questi andrà sommato l’abbassamento della superficie terrestre, per un aumento netto di quasi un metro. Tutto perché, a causa delle temperature sempre più calde, le calotte polari si sciolgono e riversano in mare aperto enormi masse d’acqua allo stato liquido, che innalzano il livello degli oceani e mettono a repentaglio intere zone costiere.
Negli ultimi cento anni, per effetto dei soli cambiamenti climatici (cioè al netto di altri fattori, come il movimento della crosta terrestre), il livello del mare è salito, nel mondo, di quasi venti centimetri. Se dalle nostre parti le cose vanno leggermente meglio (l’innalzamento registrato nel Mediterraneo è di tredici centimetri e mezzo) è solo grazie all’“effetto diga” esercitato dallo stretto di Gibilterra, ma c’è poco da stare sereni: «I cambiamenti climatici stanno influenzando pesantemente il Mediterraneo», racconta Sandro Carniel, dell’Istituto di Scienze Marine del Cnr di Venezia, «in termini di temperatura, salinità, circolazione e livello del mare».
Come evidenziato nell’ultimo documento messo a punto dal Ministero dell’Ambiente, per esempio, nel periodo 1904-2006 la temperatura superficiale dell’acqua è aumentata di 0,85 gradi nel Mediterraneo occidentale, di 0,92 nello Ionio e di ben 1,45 nell’Adriatico. L’aumento del livello delle acque nell’intero bacino del Mediterraneo, invece, è stato stimato essere di 2,1 millimetri l’anno nel periodo 1992-2005, sebbene con qualche variabilità locale.