Calais, viaggio nella "giungla": il limbo dove sopravvivono i migranti che sognano Londra
Condannati al freddo e alla fame, dimenticati nel campo profughi più grande d'Europa. Cercano di arrivare in Inghilterra saltando su treni o camion e alcuni si prostituiscono per un passaggio. Siamo andati a vedere in che condizioni sono abbandonati i migranti in Francia
Soffia il vento e la pioggia colpisce in faccia obliqua alla stazione di Calais, estremo nord della Francia. Le mani congelano, le folate fanno perdere l'equilibrio sul cavalcavia che collega le quattro banchine. Alle dieci esatte il TGV in arrivo da Parigi rompe il silenzio facendo crepitare i binari del "quai" numero due. I passeggeri salgono le scale e mostrano i documenti alle casacche gialle della sicurezza. Poi di nuovo il nulla. Solo freddo, vento e buio.
Khalid e Abdul aspettano un quarto d'ora prima di risalire le scale dal binario e si fermano spaesati sul cavalcavia. Sono schedati presso l'"Eurodac" – il sistema europeo di registrazione migranti – e quindi passibili di deportazione nel paese di prima accoglienza. "Where Klais, Klais", chiedono mostrando la scritta "Calais" sul telefonino. "E' qui Calais, siete arrivati", rispondiamo mentre il vento rischia di fargli saltare il Samsung dalle mani. "Here Jungle?", chiedono, indicando una direzione nel vuoto.
Ma la "giungla", il più grande campo profughi di tutta Europa dove circa 5.500 persone vivono accampate nel fango e malate di fame, dista più di venti chilometri dalla stazione. E' la porta d'uscita di Schengen, solo 29 chilometri di mare da quella Londra che viene vissuta come una leggenda, in una sorta di sogno americano. "Da Kabul 7.000 dollari e mille problemi", dice uno dei due che parla un po' d'inglese cercando di capire se può fidarsi ad accettare il nostro passaggio.
"Welcome to the jungle", ghigna l'agente in tenuta anti-sommossa all'ingresso del campo quando ci ritorniamo la mattina dopo. Dietro al cordone di polizia, che circonda pressoché tutto il perimetro della bidonville 24 ore su 24, è spuntato un murales dell'artista inglese "Banksy". Uno Steve Jobs in versione migrante vuole ricordare che il visionario fautore di Apple era figlio di un fuggitivo di Homs: "ora la Apple è l'azienda più redditizia del mondo, paga allo stato più di sette miliardi di dollari l'anno", ha detto l'artista.
I siriani sono molto aumentati negli ultimi mesi di boom demografico nella "giungla", così come i fuggitivi dell'Eritrea, sempre più "Corea del Nord" africana. Questi ultimi si scontrano spesso con i sudanesi, altra etnia ben rappresentata insieme ad etiopi, afghani, pakistani e, un po' meno numerosi, i palestinesi. Fino a quattro mesi fa la popolazione era di 3.000 – 3.500 migranti, numero già gravemente sproporzionato rispetto alle capacità gestionali delle organizzazioni umanitarie attive sul campo. Da allora gli abitanti sono pressoché raddoppiati, anche stando alle sottostime della prefettura. "Con l'esplosione delle rotte balcaniche qui non ce la facciamo davvero più", dice Teresa Resa, un'attivista italiana arrivata qualche settimana fa da Ventimiglia, "e lo stato francese continua a far finta di nulla".
Avanzare nella giungla è un'impresa degna di Tarzan. Le strade di fango si incuneano fra assiepamenti di tende e baracche improvvisate, cespugli di rovi, pile di materiali abbandonati. A volte i mucchi di rifiuti e detriti ti sbarrano la strada. Sulle vie principali la gente si tiene sul bordo per evitare la melma che al centro risucchia tutto, siano scarpe, ciabatte o stivali. A volte si creano degli ingorghi sui lati, così i migranti fanno la fila anche per camminare. Per mangiare, poi, c'è da esser scaltri e pure pronti a menare. Lo vedo verso mezzogiorno, a poche decine di metri dalla chiesa etiope.
Il camion di Care4Calais, una piccola organizzazione di volontari inglesi, si ferma per cominciare le distribuzioni. La calca impedisce all'autista di scendere per aprire i portelloni, la tensione sale e partono i primi spintoni. Quando la situazione sfugge definitivamente di mano, il volontario risale e riparte un po' impaurito. Dietro di lui la rissa si spegne, e qualcuno cerca di saltare sul retro del camion. "A volte è troppo pericoloso cominciare le consegne", spiega la numero uno di Care4Calais, Claire Moseley, "qui la gente muore davvero di fame".
Ma che fine ha fatto lo stato? Come interviene la quinta potenza economica del mondo, in questo ghetto stretto fra i fumi venefici degli stabilimenti industriali e il raccordo su cui transitano i camion diretti nella City, bersaglio ogni notte dei tentativi d'arrembaggio dei disperati? Esita, nicchia, tentenna sotto le sferzate di Marine Le Pen, secondo cui a occuparsene troppo si rischia l'"appel d'air", cioè si finisce per attrarre ancor più disperati.
E' la versione francese del "pull factor" di Cameron, l'argomentazione con cui il Primo Ministro inglese negò il suo sostegno all'Italia quando Palazzo Chigi spendeva nove milioni e mezzo al mese con "Mare Nostrum" per condurre i migranti nei centri sovraffollati di Lampedusa. A Calais il soccorso viene invece delegato alle piccole associazioni di volontari, spesso impreparati e disorganizzati, e tendenzialmente disponibili solo nei week-end.
"Alcune associazioni prendono anche piccoli sussidi dallo stato", precisa Alexandra di "Auberge des migrants", "noi prendiamo 8.000 euro all'anno, ci si può fare davvero poco ma siamo comunque fra i più fortunati". L'unico presidio diretto della "Republique" è il centro "Jules Ferry", uno stabilimento al margine della giungla finanziato in buona parte con fondi europei. Distribuisce 2.500 pasti al giorno, ospita trecento donne con bambini, e offre qualche centinaio di docce perlopiù fredde. Questo è quanto, in un campo di quasi 6.000 persone. Una volta c'era anche il centro accoglienza di Sangatte, ma nel 2002 il ministro dell'interno Sarkozy lo fece chiudere perché troppo affollato. A gennaio le autorità dovrebbero far sistemare delle nuove baracche nel centro della giungla, ma i 1.500 posti sono già stati assegnati a chi abitava in quel punto prima dell'arrivo delle ruspe. Ci sarà un riscaldamento, si dice.
Per ora il freddo non lo sfugge nessuno, e alcuni finiscono per bruciarsi la tenda nel tentativo di riscaldarsi. "Fu molto grave l'incendio del 13 novembre, lo stesso giorno degli attentati di Parigi", racconta Teresa Resa che vive nella giungla, "ma solo pochi giorni fa è bruciato uno di quei locali brutti, una specie di bordello". Le donne sono solo una piccola percentuale nel campo, attorno al 14 per cento, e a girarlo pare non ce ne sia nessuna perché rimangono all'interno di baracche e capanne.
"In tante si vendono per accumulare denaro e corrompere i camionisti, vogliono fino a 1.000 euro per nasconderti fino in Inghilterra", spiega un'altra attivista. Stupri, omicidi e violenze passano facilmente inosservati, lontano dagli occhi di giornalisti e polizia. Si è saputo però della morte del diciassettenne Yusef, un sudanese investito il 3 dicembre scorso mentre cercava di saltare su un camion. E' il ventiquattresimo decesso ufficiale della giungla, e come minorenne avrebbe avuto diritto della tutela dello stato francese fino al compimento della maggiore età, rifugiato o migrante economico che fosse. La mancanza di informazioni accessibili su diritti e procedure di richiesta di asilo bloccano tantissimi immigrati "legittimi" nella giungla.
E' sicuramente il caso di Altaish, un sudanese coi denti bianchissimi che parla un inglese perfetto. La sua famiglia è ancora nei campi profughi del Darfour, da cui lui è fuggito in un periodo di "vero pericolo". Dalla Libia ha raggiunto l'Italia, approdando in Sicilia con un barcone. Racconta di aver tentato il salto sul camion almeno cinque volte e di voler ritentare. "Ci proverò finché non ci entro in quel maledetto Eurotunnel", dice. Lamenta il "razzismo degli inglesi" ma dice che a Calais non sono da meno: "Una volta con sette o otto ore di cammino si andava in centro città, usavamo le docce della piscina e le prese della biblioteca" racconta. "Ora per accedervi serve la residenza nella regione Nord-Pas-de-Calais".
Il suo compagno, noto nella giungla come Scibli, ha attaccato una bandiera inglese sulla sua tenda "anche se non ci vogliono". "Sogniamo tutti di andare a Londra, anche se per ragioni diverse", spiega. "Molti hanno dei familiari là, altri non ne vogliono sapere di fermarsi in Francia perché non sanno il francese. Io personalmente credo che ci sia più lavoro, e una mia amica funzionaria mi ha detto che è molto più facile ottenere l'asilo".
Mentre gli africani sono arrivati con le barche, gli afghani del Kabul Cafè sono arrivati attraverso i Balcani. Fra tutti i bar, ristoranti e negozi spuntati negli ultimi mesi (fa specie pensarlo ma molte baracche sono diventate esercizi commerciali sulle vie principali della giungla) il loro locale è il più titolato. Come i negozianti che vendono frutta, pane ed attrezzi, anche loro si riforniscono al Lidl di Calais approfittando della lunga distanza che separa il centro dalla giungla. Servono riso, fagioli e pollo. La clientela è l'alta borghesia del campo, assieme a qualche volontario.
"In Italia sono rimasto un anno, a Udine", dice il proprietario Abdullah in italiano, "ma poi mi sono reso conto che non c'era più lavoro". Il suo compare, Secandan, è cresciuto in Inghilterra usufruendo dell'accoglienza garantita a tutti i minori. A diciotto anni ha ottenuto un visto per altri cinque, ma a 23 lo hanno cacciato. Sono quattro mesi che lavora al "Kabul", la sua Londra l'ha tradito e abbandonato dopo averlo accolto. Gli avventori del locale fissano uno schermo su cui scorrono dei video musicali di Youtube, gli sguardi persi come in un impotente abbandono. Guardano donne discinte sculettare stappando bottiglie di champagne, la musica pop li incanta mentre la festa nella villa di lusso con piscina impazza attorno alla cantante. Faccio per pagare il conto ma Abdullah non transige: "Tieniteli quei cinque euro, che siamo fra italiani".
Lascio la giungla quando viene buio, il canto del muezzin risuona da una delle 5 moschee del campo. Lungo il Chemin Des Dunes, la strada di confine su cui si radunano i volontari prima di ripartire, alcuni abitanti locali hanno barricato le proprie case con cancelli, allarmi e filo spinato. Paiono insediamenti illegali in Cisgiordania tanto sono protette, le scritte "vendesi" rimangono ma sono solo una velleità.
Saliamo sul camioncino di Care4Calais, i pugni dei migranti fanno tremare la latta appena ci accucciamo nella parte posteriore come se stessero per cominciare le distribuzioni. Le scorte in realtà sono finite, dentro ci sono solo i volontari. Claire Moseley ricomincia a raccontare: "I magazzini li teniamo a diversi chilometri di distanza, e la posizione esatta deve rimanere un segreto", spiega. "I profughi li prenderebbero d'assalto se sapessero dove si trovano, e i gruppi di estrema destra potrebbero attaccarli - purtroppo è già avvenuto".
Anche se la sconfitta al secondo turno di Marine Le Pen ha fatto tirare un respiro di sollievo ai volontari, l'intolleranza per la situazione dei migranti rimane molto diffusa. "Quella dei rifugiati è una questione che polarizza la società di Calais in maniera radicale, quasi fosse un nuovo caso Dreyfus", dice Pauline che gestisce un bar nel centro cittadino. "Li chiamiamo uomini dell'ombra e sono sempre di più quelli che li vogliono cacciare, come dimostra il risultato comunque impressionante del Front National".
A fine giornata da Pauline arriva Francois, da anni "chef de circulation" presso le ferrovie francesi. "Lui ha seguito la crisi dei migranti da una posizione privilegiata, fin dai tempi dei primi arrivi di rifugiati dal Kosovo a fine anni '90", mi dice. Come responsabile di circolazione alla stazione di Calais, tocca a lui schiacciare il bottone per bloccare il treno ogni qual volta vede dei migranti sui binari che si muovono nella direzione dell'Eurotunnel.
"Fino a qualche mese fa ce la facevano ogni sera fra i quaranta e gli ottanta, approfittando della sosta tecnica dei treni merci", dice, "e alcuni riuscivano a infilarsi nell'Eurotunnel sui treni che trasportano automobili e camion". "Quasi impensabile invece balzare sull'Eurostar Parigi-Londra, che non rallenta abbastanza se non in un brevissimo tratto. Solo una volta vidi due migranti che riuscirono ad attaccarcisi". Ora però il passaggio sta diventando praticamente impossibile, se non corrompendo le autorità o affidandosi ai contrabbandieri.
"Con i soldi degli inglesi hanno costruito vere e proprie fortezze nei punti sensibili, proteggendo i binari per decine di chilometri di distanza dentro al territorio francese". Percorrendoli in macchina nei pressi della stazione si vedono addirittura tre diverse barriere, alte almeno 15 metri e ricoperte di filo spinato. "Mi pare di lavorare ad Alcatraz, eppure giuro io faccio il ferroviere!", scherza Francois.
Basterebbe un treno, basterebbe un traghetto. Le compagnie rischiano multe troppo salate per permettere ai loro funzionari di chiudere un occhio, anche solo ogni tanto. Secondo la direttiva europea numero 51 del 2001, se trasportano un migrante illegale rischiano ammende fra i 3.000 e 5.000 euro oltre a doversi occupare di riportarlo da dove è venuto. La Gran Bretagna volle essere inclusa nella regolamentazione, teoricamente rivolta solo ai paesi Schengen, pur di tutelarsi ulteriormente dall'immigrazione illegale. Poco può l'articolo tre, secondo cui "l'applicazione della direttiva deve rispettare gli obblighi derivanti della Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiati". Le procedure per l'approvazione delle richieste d'asilo non le fanno le hostess, e per i migranti la Manica rimane sbarrata. La giungla cresce, le condizioni peggiorano, e a Calais la Francia continua a violentare la sua vecchia "mission civilisatrice".