La spedizione in Iraq per ristrutturare l'impianto di Mosul sarà ad alto rischio. Bisognerà proteggere i convogli delle forniture. E difendersi dagli attacchi dell'Isis. Che lì ha usato anche le armi chimiche
«L'Italia non si tira indietro». Così Matteo Renzi ha annunciato la nuova operazione militare nel Nord dell'Iraq. Il colpo d'immagine è indubbio: le nostre truppe andranno lì non per bombardare, ma per proteggere la ricostruzione della grande diga di Mosul, danneggiata dai conflitti, afflitta da problemi geologici e soprattutto minacciata dagli attacchi dello Stato islamico.
Una missione di pace in zona di guerra. Che sarà ad altissimo rischio. La diga è alta 113 metri e lunga quasi tre chilometri e mezzo, ma gli impianti che garantiscono il funzionamento della centrale elettrica sono sparsi su un'area più vasta. Lì nell'estate del 2014 si è combattuto per settimane. I miliziani del Daesh l'hanno occupata per dieci giorni, preparandosi a farla saltare in aria. Uno scenario apocalittico: in due ore l'ondata avrebbe devastato la metropoli di Mosul, con danni colossali. L'assalto dei peshmerga curdi con il sostegno dei caccia americani ha messo in fuga i fondamentalisti, che però hanno tentato più volte di tornare alla carica.
Oggi è difficile capire quanto siano distanti le postazioni con la bandiera nera. Nell'Iraq settentrionale non c'è una linea del fronte definita. Di sicuro, i miliziani del Daesh hanno condotto attacchi anche a cinque chilometri dalla diga. E colpiscono spesso i capisaldi curdi nella zona: proprio mentre Renzi annunciava la nuova missione italiana, una squadra kamikaze si è lanciata contro Kiske, l'avamposto curdo a circa trenta chilometri dall'impianto idrico, provocando tredici vittime tra i peshmerga.
Lì circa cinquecento soldati italiani, quasi sicuramente parà della Folgore, dovranno essere pronti al pericolo più insidioso: le armi chimiche. Nello scorso giugno uno dei fortini curdi che difendono la diga è stato bersagliato con munizioni cariche di gas. Secondo gli esperti francesi, si trattava di granate da mortaio con testata alla clorina: una sostanza usata durante la prima guerra mondiale ma molto efficace. Gli ordigni sono stati prodotti negli arsenali dello Stato islamico. Che sarebbero in grado di confezionare pure ogive con iprite, un veleno ancora più micidiale.
Per questo la spedizione tricolore dovrà creare una “bolla di sicurezza” intorno alla diga con un raggio di diversi chilometri, costruendo una serie di basi fortificate. Serviranno mortai pesanti da 120 millimetri, radar speciali “controbatteria” per scoprire da dove sparano i nemici, droni portatili per sorvegliare i dintorni. E molti veicoli blindati. L'aspetto più pericoloso dell'operazione sono infatti le forniture: il cantiere avrà bisogno di macchinari e soprattutto cemento. Fondamentale sarà l'impiego degli elicotteri pesanti Ch47 Chinook: l'Italia aveva previsto di schierarne due in Kurdistan ma probabilmente la squadriglia dovrà essere raddoppiata. Sarà inevitabile però ricorrere ai camion per trasferire parte dei carichi, convogli che percorreranno strade dove il controllo curdo si limita ad alcuni checkpoint. Lì il rischio di imboscate o trappole con ordigni esplosivi sarà continuo. Perché quello italiano sarà il contingente occidentale più vicino alle basi jihadiste, quasi un magnete per le loro incursioni.
Un'operazione simile è stata condotta dieci anni fa in Afghanistan, nel cuore della regione infestata dai talebani. In quel caso si trattò di rimettere in funzione la diga di Kajaki, alta 100 metri, fondamentale per le forniture di elettricità e l'irrigazione nella provincia di Helmand. Nel 2007 gran parte dell'infrastruttura era in mano ai miliziani fondamentalisti, che furono scacciati dalle truppe Nato con una battaglia durata dodici giorni. Ma prima di ritirarsi, i talebani distrussero alcuni impianti. Le prime riparazioni vennero condotte dagli americani. Poi si decise di sostituire uno dei generatori, distrutto dai bombardamenti del 2001, con un nuovo apparato pesante 220 tonnellate. Per trasportarlo dall'aeroporto più vicino gli inglesi organizzarono una spedizione monumentale. Fu allestita una colonna di cento veicoli corazzati, con una brigata di paracadutisti, protetta dal cielo da elicotteri armati e caccia. Un secondo convoglio con quaranta blindati danesi fece un viaggio diversivo su un altro percorso. E la zona più pericolosa del tragitto, dove si temevano imboscate, fu “bonificata” con una pioggia di razzi e cannonate, uccidendo duecento guerriglieri. L'operazione “Eagle's summit” fu un successo, perché i macchinari arrivarono a destinazione senza perdite né danni. Ma quella turbina non è ancora entrata in funzione. Per installarla bisogna costruire una struttura in cemento pesante 700 tonnellate e in otto anni non si è ancora riusciti a organizzare il trasferimento dei materiali, perché i talebani dominano le strade di accesso alla diga.
Alle spalle dell'impianto di Mosul il territorio è presidiato dai fortini curdi. Che però non hanno truppe sufficienti per pattugliare tutte le strade. I peshmerga sono combattenti molto motivati, che da un anno vengono addestrati da istruttori italiani e di altri paesi europei. Gli stiamo insegnando anche a scovare gli ordigni improvvisati nascosti lungo le strade, anche se i curdi non dispongono di veicoli a prova di esplosione: un altro tipo di mezzi che dovrà essere trasferito direttamente dall'Italia.
Alcuni esperti credono che i 500 soldati ipotizzati non saranno sufficienti a garantire la sicurezza dell'operazione. E il costo stimato dell'impegno potrebbe arrivare a mezzo miliardo di euro l'anno: fondi che al momento non sono previsti nei bilanci. La missione poi sarà lunga. Il gruppo Trevi che dovrebbe realizzare i lavori di consolidamento della diga ipotizza diciotto mesi. Ma l'ente governativo americano che finanzia l'intervento ha specificato che il cantiere potrà essere prolungato “fino a quattro anni”, per realizzare opere con un valore “tra 250 e 500 milioni di dollari”. A questo appalto se ne potrebbero aggiungere altri del governo iracheno, molto sensibile alle sorti dell'impianto. A patto che venga trovato un accordo con le autorità del Kurdistan: i rapporti tra i politici sciiti al potere a Baghdad e quelli curdi di Erbil sono sempre più tesi. Un altro fattore di rischio con cui la spedizione tricolore si troverà a fare i conti.