Che coraggio. Dire «benvenuti» mentre gli Stati vicini alzano i muri. Dire «è casa vostra», mentre i politici ansiosi gridano: «a casa loro». Che coraggio decidere, mentre da Bruxelles ad Ankara vanno di moda i respingimenti e i controlli forzati, di ospitare un rifugiato in casa propria. Di aprire il proprio salotto, la cucina, una camera da letto e la cena al più “altro” di tutti nella città del 2015: il “richiedente asilo”, il fantasma inchiodato nell'opinione pubblica a parole come “esodo”, “invasione” e “minaccia”. Eppure anche in Italia c'è chi questo coraggio ce l'ha. E per farlo diventare un metodo, un sistema comune, ha ora importato dalla Germania “Refugees Welcome”.
“Refugees Welcome” è una rete di famiglie che mettono a disposizione il proprio appartamento per richiedenti asilo o rifugiati politici. A Berlino ha già raccolto 450 ospiti. Persone che stanno dimostrando che un'accoglienza diversa, costruita alla pari, realizzata nello spazio d'ascolto del “domestico”, è possibile. In Italia un tentativo simile era stato avviato dalla Caritas nel 2013, con il progetto “un profugo a casa mia”. Ora torna come network laico e universale. «Crediamo che la crisi migratoria si giochi già nelle vite di ognuno di noi, nelle nostre case», racconta Fabiana Musicco, una delle fondatrici: «Perché quindi non proporre un modello diverso per affrontarla?».
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Si ripete da anni che le grandi strutture, i grandi centri, non riescono a integrare. La burocrazia, i grossi numeri, il continuo passaggio di individui-clienti, non lasciano innestare percorsi di speranza per ognuno di loro, e nell'emergenza degli sbarchi molti restano dimenticati. In ozio. In posti sperduti, pagati con urgenza dalle prefetture per risolvere il problema dell'alloggio. E stop. Già lo Sprar, la rete dei servizi civici, fa meglio. Ma non ha ugualmente molto tempo da dedicare. Così in decine di migliaia, anche se accettati come “rifugiati” in Italia, si trovano su una strada dopo un anno o due trascorsi scarrozzati fra un centro e l'altro.
«Queste persone restano per mesi in una dimensione di passività, che renderà loro più difficile orientarsi nel futuro, trovare una loro strada», continua Musicco: «l'accoglienza in una casa, invece, dove la condivisione può essere diretta, personale, dove ci sono “cose da fare”, banalmente, come lavare i piatti o stirare, può portare a percorsi di integrazione duraturi». Anche sul lavoro: «Il 93 per cento degli italiani cerca e trova impiego sfruttando le proprie relazioni sociali», aggiunge Matteo Bassoli, uno degli altri fondatori: «Lo stesso può così avvenire per i rifugiati».
Prima che una risposta pratica, “Refugees Welcome” è però soprattutto una sfida agli stereotipi, alle paure sociali. «Perché l'ho fatto? Perché è giusto. E perché in casa nostra c'è spazio», dice Maria Cristina, una donna che ha ospitato tre ragazzi africani a Bologna: «Non deve spaventare. Anzi, è un percorso di conoscenza reciproca».
Grazie all'esempio della Toscana, che ha creduto nella rete e sta convincendo le prefetture a orientare anche alle famiglie, oltre che alle coop, l'accoglienza dei richiedenti asilo, “Refugees Welcome” conta di creare alleanze con associazioni che già gestiscono i profughi per permettere a chi si metterà a disposizione di ricevere i famosi “35 euro al giorno” per l'ospitalità. E lo stesso di trovare fondi per aiutare quanti saranno pronti a ricevere e seguire anche i rifugiati. «Ma non ci aspettiamo che il movente per aderire sia il denaro», dice Fabiana: «Quanto una spinta interiore. E il desiderio di cambiare».