I partiti tradizionali hanno deluso i francesi, anche sulla sicurezza. Ecco perché rischiano alle regionali. Ma il Front National conosce solo la protesta

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"I francesi si aspettano molto da noi politici. E noi li abbiamo delusi, sia a destra che a sinistra. Così alcuni pensano di votare Front National perché si dicono 'non li abbiamo provati, vediamo che succede'. Ma non bisogna permettere che la collera ci porti al caos. La capisco la collera, i cittadini sono esasperati. Ci sono problemi di sicurezza, di scuola, di disoccupazione. Quando hai più del 10 per cento di disoccupati, significa che il problema riguarda tutti. Ma noi dobbiamo riuscire a spiegare che il Front National di Marine Le Pen esprime una protesta e non propone soluzioni concrete". Parla Rachida Dati, 50 anni, figlia di un muratore marocchino e di un’algerina, ex ministro della Giustizia di Parigi, europarlamentare dal 2009, esponente di punta del partito “Républicains” di Nicolas Sarkozy, sindaco del 7° arrondissement di Parigi dal 2008. E racconta a “l’Espresso” le sue speranze per le elezioni regionali del 6 e il 13 dicembre, a ridosso della carneficina di Parigi da parte dei jihadisti dello Stato Islamico.

Rachida Dati, i sondaggi dicono che Marine Le Pen è in testa e il Front National dopo gli attentati ha aumentato il consenso tra i 2 e i 4 punti. È favorito in due regioni importanti come Paca (Provenza, Alpi, Costa Azzurra) e Pas-de Calais, potrebbe vincere anche in Borgogna.
«Non amo i sondaggi. Spesso sono fuorvianti. Dico ai francesi che bisogna andare a votare. È importante, è un privilegio. Il Front National campa sulle paure e sui problemi ma non porta soluzioni. Può esserlo chiudere le frontiere, mandare via tutti immigrati, ristabilire la pena di morte e togliere l’euro? Io non credo».

Un’eventuale vittoria del Fn sarebbe una chiara indicazione anche in vista delle presidenziali del 2017?
«Una vittoria del Front National sarebbe un elettrochoc e una nostra sconfitta. Per questo dobbiamo evitare che abbia un impatto sul 2017, sarebbe grave».

Marine Le Pen pare aver cambiato atteggiamento. Ha una postura più istituzionale, ha partecipato alla cerimonia per le vittime al contrario di gennaio quando non partecipò alla marcia dopo Charlie Hebdo?
«Si può cambiare l’involucro ma il contenuto è lo stesso. Le idee non cambiano».

E il presidente Hollande? Lo ha giudicato all’altezza per come si è comportato dopo la carneficina di Parigi?
«Di fronte a questa tragedia la prima cosa da fare non è una polemica ma pensare alla sicurezza della nazione e poi prendere decisioni. Semmai si può fare una critica su quali misure di prevenzione sono state prese dopo Charlie Hebdo. Ma sul comportamento del capo dello Stato non posso dire nulla: sarebbe indecente».

Dopo Charlie non sono stati presi i provvedimenti necessari per prevenire attentati?
«Gli attentati di novembre erano prevedibili. Del resto da gennaio in poi ne erano stati sventati altri. Il terrorismo non è più una minaccia ma una realtà. Con una novità. Prima temevamo il fondamentalisti che venivano da fuori. Ora i nemici li abbiamo in casa. I terroristi del 13 novembre erano tutti europei. Dopo gennaio c’era stata un’unità politica ma non popolare. C’è stato sì un dibattito su “Sono o non sono Charlie”. Ma c’era una parte di popolazione che non si sentiva presa di mira perché erano stati colpiti vignettisti ed ebrei. Erano stati colpiti dalla barbarie dell’atto, ma si erano detti: “A me non può succedere”. Invece i terroristi minacciano ciò che è fondamentale, l’ossigeno di un Paese come la Francia: la libertà. E gli attentati di novembre dimostrano che il loro obiettivo è proprio colpire la libertà. Spesso si utilizza l’espressione “attentati ciechi”. Non sono ciechi: si vuole colpire il più alto numero di persone. Credo che gli errori siano stati più politici che giudiziari. Ci sono state, certo, lacune nella cooperazione dei servizi di informazione. Ma la prima lacuna è politica».

Le lacune delle intelligence fanno riflettere. A Bruxelles, vicino al Parlamento europeo, c’è Molenbeek, culla di jihadisti.
«Il problema riguarda tutti i Paesi europei. In Inghilterra hanno cominciato a lottare contro la radicalizzazione dopo gli attentati del 2005. Ci sono circa 5000 giovani europei che sono partiti per il jihad. La Francia è il Paese più coinvolto, ne ha 1200, il Belgio 600. Le informazioni le abbiamo. Ci vogliono più mezzi per analizzarle: la lacuna è lì, per questo dico che il problema è politico. In poche ore avevamo tutti i profili dei terroristi e sono stati annientati nel giro di alcuni giorni»».

Lei è favorevole alla guerra in Siria e in Iraq? E all’invio di truppe di terra?
«Di fronte alla barbarie non c’è trattativa possibile. Siamo di fronte a un mostro che si chiama Stato islamico e minaccia il mondo intero, non solo l’Europa. Dobbiamo attaccarlo alla radice. L’Is avanza, soprattutto in Siria. Ma non si fermerà lì. Per sradicare quel cancro ci vuole un’alleanza del più alto numero possibile di Paesi della regione, soprattutto dell’Arabia Saudita, una coalizione internazionale ma con truppe di terra della regione, che conoscono meglio di tutti la posta in gioco e il terreno. Sarebbe più efficace di un’armata occidentale. L’abbiamo visto con gli americani in Iraq. Dobbiamo essere tutti uniti perché l’Is avanza grazie alla nostra assenza di cooperazione. Prendiamo Schengen: se vogliamo preservare la libera circolazione in Europa in sicurezza, dobbiamo attuare un maggior controllo alle frontiere esterne. Ci vuole un pnr (registrazione del nome dei passeggeri sui mezzi di trasporto, ndr) europeo, per vedere se tra chi viaggia ci sono persone considerate pericolose e seguirne i movimenti. Il principio è stato votato, ora va attuato».

Nell’alleanza ci deve essere la Russia?
«Il problema non è se ci piace o no: non abbiamo scelta. La Russia di Putin è un grande Paese che ha una forte influenza in Medio Oriente. Ne abbiamo bisogno per combattere lo Stato islamico. Tutti insieme possiamo farcela».

Come giudica la posizione dell’Italia?
«In realtà Renzi dovrà prendere una posizione. Altrimenti anche l’Italia non sfuggirà al dramma. Abbiamo una responsabilità collettiva. Chi si dissocerà dovrà renderne conto al suo popolo».

Sul jihadismo interno cosa propone?
«Ho appena fatto votare al Parlamento europeo con larga maggioranza una proposta sulla lotta contro la radicalizzazione che passa molto tramite Internet e le prigioni. Vanno prese misure forti. I giganti padroni di Internet non possono più accontentarsi di dire che sono dei canali: hanno anche responsabilità penali se non fanno nulla per cancellare dai network messaggi estremisti. Si rendono complici di apologia di terrorismo. Circolano in rete video quasi hollywoodiani che diventano una vera attrazione per i giovani, video che promettono il paradiso e una vita da eroi. In prigione va fatto un lavoro in profondità, non può bastare quello svolto dalle associazione di volontari».

Le banlieue sono diventate una zona grigia.
«Ci sono quartieri diventati terreno fertile per la radicalizzazione. Ma quasi il 30 per cento dei fondamentalisti sono dei convertiti che non hanno nulla a che fare con l’Islam, con l’immigrazione o con la discriminazione. Tra i convertiti ci sono figli di professionisti. Non ci eravamo accorti di questa espansione del consenso ai terroristi. Ci tocca porre rimedio».

L’ascensore sociale che non funziona per i figli degli immigrati è una concausa però.
«Ogni forma di diseguaglianza può essere una ragione ma attenzione a non dare alibi ai terroristi. Ma certo che c’è una responsabilità politica nei confronti dei giovani svantaggiati. Non abbiamo voluto vedere che una frangia della popolazione stava andando alla deriva. O meglio: alcuni l’hanno vista, altri hanno pensato: “Non importa, finiranno in prigione”. E invece finiscono per farsi esplodere insieme a una parte del Paese. Non si possono più chiudere gli occhi. Le scuole sono un primo esempio di disuguaglianza e non parlo dell’università, perché è già troppo tardi, ma delle elementari, comincia tutto da lì. Il nostro sistema educativo è da rifare. E poi molti giovani non riescono a trovare lavoro perché i capi vogliono qualcuno che gli somigli per rassicurarsi, qualcuno del loro stesso ambiente. È anche colpa della classe politica ed economica, troppo conservatrice ed elitista».

Lei è l’esempio di come una figlia di modesti immigrati è riuscita a prendere l’ascensore sociale. Era più facile, prima.
«Sono stata innanzitutto una buona allieva. Facevo parte di una scuola cattolica. C’è voluta molta volontà e anche coraggio ma ho avuto anche fortuna perché professionalmente ho fatto presto gli incontri giusti e che mi hanno aiutata nella carriera. Sono diventata magistrato e anche questo mi ha spinta ad aprirmi di più verso il mondo. Mi è stata tesa una mano. Presentarsi con un nome arabo per un lavoro oggi è più complicato. Ma è per questo che non bisogna farsi intimidire ed essere coraggiosi».