«È stato un momento drammatico». «Siamo colpiti dal livello di intolleranza che si è verificato nei nostri confronti». A parlare è Arturo Scotto, capogruppo di Sinistra Ecologia Libertà, che commenta così la rissa scoppiata tra un suo collega di partito, Daniele Farina e un ex alleato del Pd, il deputato Emiliano Minnucci: «Minnucci avrebbe rivolto epiteti irripetibili verso di noi» è la ricostruzione, «Farina gli ha risposto chiedendogli di smettere. In ogni caso ci saranno le verifiche della Camera e ne sapremo di più».
Minnucci si è in effetti scagliato verso i banchi di Sel, irritato dalle parole proprio di Scotto, che intervenendo in aula nella lunga e agitata seduta notturna, si stava complimentando ironicamente con i colleghi del Pd per il «capolavoro politico che hanno combinato: imporre una seduta fiume che ha contribuito ad alimentare un clima che ha fatto saltare qualsiasi discussione nel merito».
I democratici non hanno gradito. Si è arrivati allo scontro. E nelle foto viene immortalato pure il collega di Scotto, Giorgio Airaudo, con foga da sindacalista metalmeccanico, in piedi sul banco. Urla «pezzo di merda», sì, e si butta anche lui nella mischia. Scotto riconosce che è segno di «frustrazione e esasperazione», ma poi dà la colpa soprattutto al premier: «Occorre disarmare il linguaggio e i metodi» dice, «e il primo che dovrebbe farlo è Matteo Renzi, che talvolta somiglia più a un capo tifoseria che a un Presidente del Consiglio. Così non va!».
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Non va anche perché ricostruire il centrosinistra è così difficilissimo. «Di fronte a questi episodi» continua il capogruppo di Sel con l’Espresso «è molto più faticoso riprendere ago e filo e ripristinare non un'intesa, ma un dialogo sulle questioni». Figurarsi poi costruire le alleanze per le prossime regionali. Non è un caso che stiano saltando quasi ovunque le intese. In Liguria Sel andrà da sola, con la sinistra e i civatiani, e anche nelle Marche. Pure in Veneto e in Toscana sembra quello il destino. «Sul piano locale non c'è alcun automatismo» è la frase di Scotto, un po’ di rito che però non smentisce la probabile rottura in Toscana e Veneto: «come sempre sul territorio si discute sulla qualità dei programmi e sulla qualità delle proposte». Certo è che il centrosinistra non c’è più e «l’assassinio di quella ipotesi politica ha prodotto il jobsact, lo sblocca Italia e le riforme costituzionali ed elettorali che nei fatti rafforzano l'idea del partito pigliatutto».
Scotto, ha preso la parola lei ed è successo il finimondo. Una rissa con i vostri ex alleati, con il Pd. È stato lei con la sua tirata d’orecchi a far scattare la scintilla?
«È stato un momento drammatico. Avevo appena preso la parola per provare a chiedere uno stop dei lavori per allentare la tensione. E avevo esordito facendo un doppio complimento. Uno nei confronti del M5S che con la sua protesta rumorosa impediva a tutti di parlare, persino all'opposizione. Inaccettabile. L'altro per il Pd che aveva fatto un capolavoro politico: imporre una seduta fiume che ha contribuito ad alimentare un clima che ha fatto saltare qualsiasi discussione nel merito. Un atto senza precedenti su una riforma così delicata come quella di 40 articoli della Costituzione. Evidentemente queste parole hanno surriscaldato gli animi e dai banchi del Pd sopra di noi sono volate parole grosse, una aggressione, che poi è scaduta anche su un altro terreno»
Cosa è successo? Emiliano Minnucci del Pd si è scagliato contro il vostro Daniele Farina.
«Minnucci avrebbe rivolto epiteti irripetibili verso di noi. Farina gli ha risposto chiedendogli di smettere. In ogni caso ci saranno le verifiche della Camera e ne sapremo di più. In ogni caso, siamo colpiti dal livello di intolleranza che si è verificato nei nostri confronti. Occorre fermarsi e riflettere».
Poi Giorgio Airaudo è salito sui banchi, «pezzo di merda» ha urlato. Diciamo con non sembra un buon rapporto quello tra voi e i democratici.
«Quando si sta qui per numerose ore ostaggio di una scelta incomprensibile della maggioranza che tratta la carta costituzionale come il codice della strada è chiaro che prevale la frustrazione e talvolta l'esasperazione nei rapporti. Occorre disarmare il linguaggio e i metodi. Il primo che dovrebbe farlo è Matteo Renzi, che talvolta somiglia più a un capo tifoseria che a un Presidente del Consiglio. Così non va! Non si può trattare il Parlamento come un soprammobile fabbricando sistematicamente avversari e totem da abbattere. Ieri a un certo punto della notte è arrivato in aula: avrebbe dovuto sfruttare l'occasione per riaprire un confronto, per spiegare le ragioni di questa accelerazione impropria. Non lo ha fatto: per l'ennesima volta, nonostante le richieste dell'opposizione, non ha rispettato quell'aula».
Poco dopo lei ha ripreso la parola e ha detto: «Episodi così rischiano di incrinare definitivamente anche rapporti politici». Non è un caso che per le regionali stiano saltando quasi ovunque le alleanze. In Liguria andate soli, con la sinistra, e anche nelle Marche. Pure in Veneto e in Toscana sembra quello il destino.
«È evidente che di fronte a questi episodi è molto più faticoso riprendere ago e filo e ripristinare non un'intesa, ma un dialogo sulle questioni. Renzi nel corso dei mesi precedenti ha scelto la strada di chiudere le riforme con Berlusconi. Ha scelto un metodo: lavoro con un pezzo dell'opposizione escludendo gli altri. Errore. Ma finito il patto del nazareno l'errore è persino doppio. Modifica 40 articoli della costituzione praticamente da solo e a maggioranza. In democrazia i numeri contano ma non sono tutto. Evidentemente, questa lezione molto semplice propria di chi ha una cultura liberale non vale per Matteo Renzi. Sul piano locale non c'è alcun automatismo. Come sempre sul territorio si discute sulla qualità dei programmi e sulla qualità delle proposte. Continuo a pensare che il Pd sia un luogo dove ci sono militanti, dirigenti e amministratori che sono un patrimonio della democrazia italiana. Mi rifiuto di credere che la mutazione genetica sia compiuta definitivamente, nonostante Renzi».
Ma è finito il centrosinistra?
«Il centrosinistra non c'è. Sel è all'opposizione e Renzi ha scelto un progetto alternativo all'impianto programmatico di Italia bene comune. L'assassinio di quella ipotesi politica ha prodotto il jobsact, lo sblocca Italia e le riforme costituzionali ed elettorali che nei fatti rafforzano l'idea del partito pigliatutto. La fine del centrosinistra ha contribuito a innescare la fiera del trasformismo, con 173 cambi di casacca in due anni di legislatura che pongono a chi governa oggi un grande problema di credibilità politica».