Il ciclone giudiziario che si è abbattuto su Veneto Banca non dovrebbe stupire troppo gli osservatori più attenti. Già nel febbraio 2013, con un articolo di Vittorio Malagutti “l'Espresso” aveva raccontato dei prestiti che la dirigenza dell'istituto aveva concesso a personaggi eccellenti, da Denis Verdini a Gianpiero Samorì, avvocato e fondatore di un movimento politico chiamato Mir, vicino a Silvio Berlusconi. Ora la procura di Roma ha messo sotto indagine per ostacolo alle funzioni di vigilanza l'ex presidente Flavio Trinca e quello che è stato a lungo il vero dominus della banca, Vincenzo Consoli, oggi direttore generale ma in precedenza, dal 2008 al 20014, amministratore delegato.
L'ipotesi che i magistrati stanno ora valutando è che il patrimonio della banca, non quotata in Borsa ma con titoli azionari diffusi fra ben 88 mila soci, sia stato sovrastimato per non incorrere in una ricapitalizzazione che avrebbe fatto emergere le difficoltà strutturali in cui versava il gruppo. Altra ipotesi allo studio, l'esistenza di rapporti privilegiati con una serie di clienti che venivano finanziati ma che, in cambio, sottoscrivevano titoli dell'istituto. Tra gli altri, sono stati perquisiti gli uffici di imprenditori come Marco De Benedetti, Giuseppe Stefanel, Gianfranco Zoppas e dello stesso Samorì, tutti non indagati.
L'indagine della procura di Roma nasce da un'ispezione condotta nel 2013 dalla Banca d'Italia, che aveva poi fatto pressioni per un ricambio al vertice di Veneto Banca, ottenendo un passo indietro da parte di Consoli ma non una reale discontinuità, visto che non era stato nominato un nuovo amministratore delegato dell'istituto e che Consoli stesso era rimasto, appunto, come direttore generale.
Alcuni soci, peraltro, ritengono che già in passato l'azione della vigilanza non fosse stata così incisiva. E hanno segnalato a “l'Espresso” un documento molto interessante. Si tratta del bilancio relativo all'anno 2002, che era stato consegnato agli azionisti per l'approvazione in assemblea privo della relazione della società di revisione, poi stampata in una seconda versione del bilancio, messa a disposizione solo successivamente all'appuntamento assembleare, ormai a giochi fatti. Che cosa c'era di scottante in quel documento? Il fatto che la Banca avesse dovuto ammettere «oneri derivanti da operazioni non riconosciute dalla clientela nel comparto derivati», come scriveva la Reconta Ernst & Young nel documento.
La società di revisione spiegava che, su sua richiesta, «la direzione della banca aveva trasmesso nei primi giorni di marzo una relazione che illustra le circostanze e gli effetti» di quelle operazioni di cui i clienti non sapevano nulla. «Con riferimento all'operatività del comparto derivati, le procedure di richiesta di conferma ad un campione di 237 clienti effettuate con l'obiettivo di acquisire informazioni circa il mandato conferito, il ricevimento mensile della rendicontazione periodica prevista dalla normativa e la correttezza della posizione in derivati e titoli al 31 dicembre 2002, ci hanno consentito di acquisire conferme solo da 79 clienti».
In pratica, come si evince dal documento, la Ernst & Young non aveva potuto ottenere da gran parte dei clienti (ben 159) del campione la conferma della veridicità dei contratti loro imputati, che a questo punto sembra lecito definire “fantasma”. Portando la società di revisione a mettere nero su bianco un'affermazione molto dura: nell'anno in questione si erano verificate «anomalie operative», per nulla indolori per i conti della banca. Nell'esercizio in questione infatti, Veneto Banca era stata costrettadalla società di revisione, proprio per i contratti fantasma, a segnare in bilancio 33,6 milioni di perdite straordinarie da operazioni finanziarie e altri 3,5 milioni come oneri straordinari generici.
La relazione di Ernst & Young prosegue dicendo che «le procedure adottate dalla banca hanno manifestato carenze nel processo dei controlli di linea e non hanno efficacemente garantito l'individuazione di perdite, effettive e potenziali, e la tempestiva comunicazione delle stesse alla clientela, anche ai fini della valutazione dell'adeguatezza dei mezzi costituiti a titolo di provvista o di garanzia». Delle modifiche a queste procedure erano «in corso» ma il problema veniva soltanto accennato nel bilancio di Veneto Banca, dove anzi, la spiegazione dei 37,1 milioni di perdita viene fornita in maniera molto più sfumata: «Detta perdita», si dice a pagina 115 della nota integrativa, «è stata influenzata, oltre che dal problematico andamento dei mercati finanziari, e dalle turbolenze che li hanno investiti per tutto il 2002, anche da un’attività del comparto finanza che ha portato a far maturare differenziali negativi su derivati, connessi anche all’operatività per conto della clientela». Una spiegazione che, a bene vedere, spiega molto poco: appare infatti strano che una banca spesi sul proprio conto economico perdite su operazioni effettuate dalla propria clientela, comportandosi come un'istituzione di beneficenza. A meno che, queste operazioni non siano state effettuate a insaputa della clientela stessa, come pare affermare invece la società di revisione.
Ebbene, che cosa accadde dopo la segnalazione della Ernst Young? La società di revisione venne sostituita dalla Grant Thornton. Mentre la Banca d'Italia e Consob non ritennero di dover imporre un ricambio al vertice. Trinca è rimasto presidente fino al 2014, mentre l'allora direttore generale Consoli qualche anno dopo, nel 2008, venne promosso amministratore delegato.
Economia
18 febbraio, 2015La procura indaga sui prestiti a personaggi eccellenti. Ma già in passato i vertici dell'istituto si erano resi protagonisti di operazioni dubbie. Su cui la vigilanza non aveva ritenuto di dover intervenire
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