Le mani delle organizzazioni mafiose, esportate dall’Italia, s’allungano da trent’anni sulla Spagna, «il giardino dei camorristi», secondo Roberto Saviano. Ma per gran parte degli spagnoli (e spesso delle loro autorità), il fenomeno resta relegato nella tradizione folcloristica italiana, come fosse un film di Scorsese o di Coppola.
Perché non ci sarebbero altre ragioni per spiegare il successo in Spagna di una catena di 37 ristoranti di cucina italiana, presenti anche in Portogallo, che si chiama “La Mafia se sienta a la mesa”, (La Mafia si siede a tavola). Un nome bizzarro, che non piace ai tanti italiani che vivono e lavorano qui e, come capita spesso all’estero, sono rincorsi dallo stereotipo di chi associa nazionalità a mafiosità.
La società di locali in franchising, la “La Mafia Franchises S.L.” esiste da quindici anni, ha sede a Saragozza, dà lavoro a cinquecento dipendenti e produce un giro d’affari di oltre 20 milioni di euro annui. È impegnata nel sociale con tre progetti di beneficenza per Fundación Red, Aldeas Infantiles SOS e My Home.
I locali sono arredati con cura, “in stile mafioso”, suggerisce il sito Internet dell’azienda. Alle pareti sono appese gigantografie e foto della trilogia de “Il padrino” di Francis Ford Coppola, il menù mischia ricette spagnole ai tradizionali piatti italiani cucinati con materie prime importate dall’Italia. Esistono anche “Club La Mafia Lounge”, dove farsi un drink.
Per capire come è nata l’idea di dare un nome così controverso ai ristoranti, l'Espresso ha parlato con Pablo Martínez Escolar, il direttore marketing e comunicazione del gruppo. Consapevole del risentimento di molti italo-spagnoli premette: «Il nostro è un nome meramente commerciale che non vuole assolutamente essere recepito come vicino o favorevole alla mafia, una realtà che esiste in tutto il mondo. Da parte nostra, da sempre, c’è il massimo rispetto verso chi ha sofferto o è stato vittima della mafia».
Perché, dunque, la scelta di questo nome? «Nel 1998 Javier Floristán e Pablo Mariñosa, due ventenni di Saragozza, partendo da un semplice bar di panini, inaugurarono vari ristoranti fino all’idea di dedicarsi alla cucina italiana. Nel 2000 fecero un viaggio in Italia per conoscere i prodotti enogastronomici, convinti che pasta e pizza fossero piatti universalmente noti e a buon prezzo ovunque. Entrambi amavano la trilogia cinematografica de “Il Padrino” e quando scoprirono il libro “La Mafia si siede a tavola”, scritto nel 1998 dai giornalisti francesi Jacques Kermoal e Martine Bartolomei (in italiano “La Mafia a tavola”, edito da L’Ancora del Mediterraneo, ndr), una guida culinaria con i piatti tradizionali che i mafiosi cucinavano e gustavano a pranzo e a cena, decisero di usarlo come nome dei loro ristoranti».
Così è nato il nome. «Come fosse una tonteria, una sciocchezza, senza pensare assolutamente a un atto di apologia nei confronti della mafia, senza alcuna intenzione di mancare di rispetto a chi ha subito un lutto da tali criminali», quasi si giustifica Martínez Escolar. «Qui parliamo di un marchio di successo che dà lavoro e produce ricchezza in un momento così difficile per la Spagna, per questo chiediamo rispetto per la nostra azienda».
Se in Italia aprissimo un ristorante inneggiando ai terroristi dell’Eta, come la prenderebbero gli spagnoli? «La mafia è il sinonimo internazionale per indicare un’organizzazione clandestina e parassitaria del territorio. Un termine che è riconosciuto in tutto il mondo come tale, dal Giappone agli Stati Uniti. Mentre nel caso dell’Eta, si sa che ci riferiamo a un’organizzazione terroristica effettiva della Spagna. Ma, ripeto, non è mai stata nostra volontà offendere gli italiani. Ci siamo ispirati soltanto a un ricettario».
Ma agli italiani questo nome non va proprio giù. E nemmeno il messaggio che reclamizza i ristoranti: “Da buoni mafiosi siamo convinti che la famiglia sia la cosa più importante. Con loro vogliamo condividere la gioia di un buon pasto in un ambiente gradevole e famigliare, perché ci siamo impegnati a ricreare la tradizionale cucina mafiosa”. Insomma, gli italiani che vivono a Barcellona, sede della più numerosa comunità di connazionali di Spagna con quasi 22 mila iscritti all’Aire, non sembrano aver digerito la cosa.
«Questa è l'immagine giocosa che ha la gente della mafia – dice Valentina, 35 anni, laurea in Lettere a Cagliari – In Olanda la parola mafia la ritrovi in alcune marche pseudo italiane per scimmiottare lo stile italiano. Perché la mafia fa ridere, la mafia fa figo, la mafia è il marchio italiano alla stregua di D&G o Gucci».
Per Alberto, 40 anni di Prato, consulente aziendale, «La banalizzazione del fenomeno mafioso e il suo utilizzo a fini commerciali deriva dal fatto che in Spagna, come in altri Paesi, non sia previsto nel codice penale il reato di associazione mafiosa. Di conseguenza, è assai improbabile che si sviluppi una cultura anti-mafiosa».
Più radicale il giudizio di Leo, 53 anni, pugliese: «Anni fa a Madrid vidi un ristorante che si chiamava “Omertà” e uno “Corleone”, di certo non un omaggio al paese siciliano. Mi sono sentito indignato, avvilito e impotente. Ora con questa catena si è superato ogni limite del buon gusto».
Idem per Valentina, 32 anni, messinese, ex agente immobiliare: «Ho visto il ristorante nel centro di Burgos e sono rimasta paralizzata. Non mi faccio una ragione di tale schifo. Perché, senza offesa, credo non esista altra parola. Ricordo che mi misi a imprecare in siciliano. È insensato credere che sia una cosa tipicamente mafiosa la cultura dell’accoglienza e della buona cucina. La mafia ruba, uccide, fa saltare in aria Falcone e Borsellino e le loro scorte, scioglie i bambini nell'acido, impoverisce il territorio».
Raffaele, 60 anni, campano, ex agente di Polizia, ha aperto a Barcellona col figlio il ristorante “Calalapasta”: «Bisogna smetterla di accostare il nostro Paese alla parola mafia, soprattutto se vi è lo sfruttamento commerciale. La mafia non è più un fenomeno autoctono: anche in Spagna è presente con attività immobiliari e commerciali per riciclare denaro sporco. Non metto piede in un locale con un nome cosi stupido!».
Roberto, 32 anni, pugliese, laurea in Scienza della Comunicazione, ha avuto a che fare con gli stereotipi: «Quando ho lavorato come facchino in un hotel 5 stelle e i clienti mi chiedevano di dove fossi, al sentire del Sud Italia mi chiedevano ridendo se ero “della mafia”. Credono sia una cosa folcloristica, da riderci su. Gli italiani sono piacioni, ma provate con un tedesco a fare battute sul nazismo».
Per Maria, 33 anni, di Napoli, insegnante d’italiano, è soprattutto una questione di marketing: «Ridere e ironizzare sulle mafie serva anche a sgonfiarle. Non mi sono mai opposta a iniziative come “Gomorra” e applaudo libri ironici come “Benvenuti in casa Esposito. Le avventure tragicomiche di una famiglia camorrista” di Pino Imperatore. Ma questa è un'inutile operazione di marketing: la mafia aiuta a vendere».
Alberto, 34 anni, agente del turismo, catanese, conoscitore della Spagna: «Sono siciliano e mi sento offeso anche come italiano. Usare la mafia per fini commerciali è una trovata più che becera e da denunciare. È come dedicare a Hitler una piazza o chiamare un locale “Nazist”. Perché “mafia” non suscita la stessa aberrazione?».
Federico, 38 anni, lombardo, insegnante di marketing turistico alla Università di Barcellona: «Quel nome veicola e rinforza l’associazione tra italianità e tipicità mafiosa, nel senso di Paese di corrotti. Associa questa tipicità alla gastronomia come lo stereotipo “pasta, mafia e mandolino” ».
Così mentre gli spagnoli si mangiano i piatti della mafia, la vera “Cosa Nostra” si mangia la ricchezza del loro Paese, sottraendo denaro alle loro istituzioni per parecchi miliardi di euro: in Italia il fatturato dei clan tocca i 140 miliardi di euro. In Spagna, al momento, nessuno si è preso la briga di fare i conti. Tanto poi si finisce a tavola con un bel piatto di maccheroni.