Colloquio con Abderrahmane Sissako, regista africano candidato all'Oscar con "Timbuktù". Un pellicola ispirata alla vera storia della coppia del Mali che fu lapidata in pubblico per aver osato costituire una famiglia fuori dal matrimonio. In nome di un Islam assai lontano da quello nel quale è cresciuto

Il regista Abderrahmane Sissako, 53 anni, in questo periodo è in Mauritania, il suo Paese. Lì aspetta la nascita di un figlio, prima di partire alla volta degli Stati Uniti dove prenderà parte alla cerimonia degli Oscar, essendo [[ge:espresso:plus:articoli:1.198394:image:https://espresso.repubblica.it/polopoly_fs/1.198394.1423242034!/httpImage/image.jpg_gen/derivatives/articolo_480/image.jpg]]candidato al premio per il migliore film straniero con il suo “Timbuktù”. Sissako è musulmano, ma non fa testo: per lui la fede è qualcosa di privato. La sua pellicola trae ispirazione da un episodio reale avvenuto alcuni anni fa: una coppia del Mali fu lapidata in pubblico per aver osato costituire una famiglia fuori dal matrimonio.

Le immagini della lapidazione circolarono in rete. Sissako – per il quale non esiste prova d’amore più bella nella vita di una coppia che decidere ?di mettere al mondo un figlio – ricorda che quell’episodio rappresentò per lui il colmo dell’assurdità e della barbarie. Tutto ciò per di più avvenne e avviene nel nome di un Islam assai lontano da quello nel quale è stato cresciuto e al quale è stato educato, un Islam tollerante che, dice in questa intervista con “l’Espresso”, «insegnava a vivere in armonia totale con il prossimo». Sissako spiega che quell’episodio lo turbò, lo indignò, gli fece provare la sensazione di sentirsi responsabile e di dover mostrare che non ci si può arrendere alla paura. Che occorre resistere. Resistere: ecco il messaggio del film che narra come, nei villaggi del Mali caduti nelle mani dei jihadisti, si sia organizzata la resistenza tra gli abitanti che si sono sottratti, mettendo in pericolo la vita, agli assurdi divieti imposti nel nome della religione. L’ultima inquadratura - un bambino che corre verso la libertà - lascia intuire una speranza.

Sissako, qual è stata la reazione quando ha saputo della nomina agli Oscar? ?Ha avuto l’impressione di essere diventato il portavoce del cinema africano?
«Ho provato una gioia immensa e allo stesso tempo una grande soddisfazione. Ho avuto l’impressione di essere sostenuto non soltanto dal mio Paese, ma da un Continente intero. Quando la pellicola di un’industria cinematografica poco importante sulla scena internazionale arriva a elevarsi a quel livello l’emozione è davvero forte. Sì, per taluni aspetti sono il loro portavoce. Per forza».

Il film parla dell’assurdità della guerra. ?Di uomini che non possono più guardare la televisione né ascoltare la radio. Perché ha voluto sottolineare proprio l’assurdità della tragica situazione di quel villaggio occupato dai jihadisti?
«Non si possono vietare la musica o il calcio. Nessuna religione può proibire cose di questo tipo. In ogni caso, le guerre sono assurde».

In quel villaggio arrivano alcuni uomini ?con nuove leggi da far rispettare, ?anche se ancora non sanno come trovare la punizione giusta per chi le infrange. ?Il jihadismo ha qualcosa di peculiare?
«Non credo che ci sia una peculiarità nel jihadismo. Penso che prima di tutto sia fatto dagli uomini. È l’essere umano a essere crudele, a prescindere dalle sue origini o dal luogo nel quale vive e commette atrocità».

All’inizio del film, in una scena che si svolge nel deserto, si vedono due bande jihadiste passarsi un ostaggio occidentale. Prima dello scambio, i rapitori si prendono cura di lui, gli somministrano le medicine di cui ha bisogno. Alcuni critici glielo hanno rimproverato. Come si devono rappresentare i jihadisti?
«Questa scena racconta bene ciò che intendo dire. Questi individui sono capaci di dare a un ostaggio le medicine, di restituirgli gli occhiali, di offrirgli un tè, ma cinque minuti dopo gli tagliano la gola senza esitazioni. Racconto ?di che cosa è capace l’uomo. E anche questa è la realtà. I gesti spietati sono inammissibili, ma sono commessi da uomini come noi. Per strada o sulla terrazza di un caffé è possibile conoscere una persona simpatica che il giorno seguente commette la peggiore delle azioni. Io non sono un giudice, ma un artista».

Nel film alcuni giovani che non hanno più ?il diritto di giocare a calcio inseguono un pallone immaginario. Altri, ai quali è vietato cantare, cantano nella loro testa o, nel caso dei più coraggiosi, a voce alta. Cosa ha voluto dire con queste scene?
«L’uomo è sempre stato chiamato a resistere. Nelle scene che mostrano la capacità di opporsi alla barbarie, costi quel che costi, c’è ottimismo. Quando una donna trasforma il proprio urlo in canto perché la picchiano per aver cantato, secondo me usa ?il modo migliore per dire ai suoi carnefici: ?“È assurdo quello che mi state facendo, ?non mi potete impedire di cantare”».

Lei è favorevole a una resistenza pacifica?
«Sì, ma al tempo stesso non dico che non ci si debba battere in altro modo. Non ?è la resistenza pacifica ad aver fermato il nazismo. Quello che voglio far capire è che l’essere umano ha capacità di resistenza e che la resistenza pacifica crea ottimismo».

Lei teme una strumentalizzazione politica del suo film. Come la si può evitare?
«La gente ha il diritto di commettere uno sbaglio, di interpretare e strumentalizzare ?i contenuti come vuole. Certo, è possibile. ?Ma penso che la cosa più importante sia denunciare l’inaccettabile. Come? Come evitare di cadere nel banale? È a questo punto che subentra il lavoro di regista e prende forma la creratività che utilizza tutti ?i mezzi a disposizione, la musica, l’immagine, il ritmo, la scelta delle inquadrature».

E che cosa ne pensa del fatto che adesso il suo film possa essere considerato uno specchio della realtà?
«Uno specchio della realtà infelice non ?è necessariamente negativo. È la realtà. ?Si deve credere però che non si tratta ?di qualcosa di eterno. Si può parlare ?della realtà e restare positivi».

All’indomani dei tragici fatti in Francia lei ha dichiarato che «non ci si deve arrendere alla paura». I francesi non l’hanno dimostrato, marciando in massa?
«Sì, l’hanno dimostrato. La loro è stata una risposta magnifica. Non si deve aver paura. Bisogna andare avanti».

Avverte un incremento dell’islamofobia ?e dell’antisemitismo in Francia?
«Sono entrambi realtà. Occorre contrastarli, combatterli, ed è quanto si sta facendo. Sono fiducioso. In Francia la gente è capace di non cascare nelle generalizzazioni».

Che cosa ha provato assistendo alla grande manifestazione dell’11 gennaio ?di Parigi, diventata l’emblema della resistenza davanti all’orrore?
«Ciò che ho visto, al di là della prima fila ?dei dirigenti politici, sono milioni di persone. ?E ce n’erano di tutti i tipi. Erano francesi diversi, maliani, burundesi, e così via. ?È questo ciò che più conta».

traduzione di Anna Bissanti