«Gli scavi fin qui eseguiti alla Piazzetta non bastano a chiarire dubbi ed arrisolvere certi problemi, e però converrà amplificarli». Era il 1916 quando Paolo Orsi, scopritore dell’antica Caulonia, nei suoi resoconti di archeologo illustrava le campagne di scavo da lui effettuate sull’acropoli della colonia magnogreca. Le ultime e le uniche, perché da allora la spianata della collinetta, che sovrasta la città dell’amazzone Clete sulla costa ionica calabra, non è stata più esplorata dagli studiosi, ma è divenuta terra di saccheggio dei tombaroli.
Le buche clandestine, scavate nottetempo tra arbusti ed erbacce, hanno trasformato il terreno in una groviera. La chiamano la “piazzetta”, l’acropoli che affaccia sopra i resti dell’insediamento di Caulonia, identificato nell’odierna località di Monasterace, in provincia di Reggio Calabria, confinante con la Riace dei famosi Bronzi, e che rischia di scomparire divorato dalle mareggiate.
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Nella parte bassa, infatti, vento e acqua hanno eroso quasi interamente la duna costiera su cui insiste il sito, lungo la strada statale ionica 106, provocando continui smottamenti e la distruzione o perdita tra le onde del materiale archeologico. È una corsa contro il tempo per salvare la polis achea che ci ha restituito, nel settembre 2012, in un edificio termale (la sala è stata battezzata “dei draghi e dei delfini”) il più grande, antico ed articolato mosaico ellenistico del Sud Italia e, nell’ottobre 2013, una tavola bronzea risalente al V secolo a.C. con il testo in alfabeto acheo più lungo ritrovato in Magna Grecia.
Non sono serviti i trentamila euro spesi dalla Provincia per la scogliera frangiflutti, mentre soltanto nel novembre scorso, dopo mesi di lungaggini burocratiche, sono partiti i lavori per proteggere la spiaggia. Nella parte alta, invece, a preoccupare è la devastazione dei cacciatori abusivi di reperti, complici il luogo isolato e l’assenza di sorveglianza. «La zona dell’acropoli è stata poche volte investigata, solo qualche sondaggio negli anni Ottanta» spiega l’archeologo Francesco Cuteri, coordinatore degli scavi a Caulonia dal ’98. Lo dice maneggiando un pezzo di ferro appena raccolto dal terreno.
«Molto probabilmente ai tombaroli - aggiunge amareggiato -, mentre scandagliavano il terreno alla ricerca di memorie antiche, è suonato il metaldetector. Di sicuro avranno trovato qualcosa di importante, chissà cosa, non lo sapremo mai». Un danno enorme ed irreparabile, non solo per il furto di valore. Chi trafuga non ha la perizia di un archeologo e decontestualizza l’oggetto che finirà nel traffico illegale, cioè lo priva di tutte quelle informazioni scientifiche di cui è portatore e utili alla ricostruzione storica. Se recuperati, questi pezzi dagli archeologi vengono definiti “muti”. «Si vede lo strato sterile - precisa Cuteri indicando una delle ultime buche -, quindi sono arrivati al terreno di fondazione, hanno scavato profondo, gettando intorno i materiali via via emersi, parti di crollo delle strutture, resti di ceramica. È qui che in età ellenistica si concentrano le officine metallurgiche: i Brettii hanno bisogno di difendersi contro i Romani, quindi si armano con corredi efficienti». Qui, oggi, invece, le armi contro i tombaroli sono spuntate. Non ci sono custodi, tutto è nelle mani di ladri specializzati che, impuniti, fanno razzia delle tracce di un illustre passato.
«Un nostro assistente va ogni tanto a fare un sopralluogo sull’acropoli, i 4-5 custodi controllano il museo ed il parco archeologico a valle, facciamo quello che possiamo. Quella dei tombaroli è una piaga - commenta Maria Teresa Iannelli, direttore archeologo della Soprintendenza per i beni archeologici della Calabria e del museo di Monasterace, il cui nuovo allestimento verrà inaugurato a fine mese - che segnaliamo di continuo ai carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale di Cosenza e a quelli di Monasterace. Impossibile per noi calcolare i danni della sottrazione, poiché di fatto non ne conosciamo l’entità. Perché non scaviamo sull’acropoli? Da anni lavoriamo senza fondi, si è privilegiata la parte dell’abitato, abbiamo dovuto fare una scelta di studio, di ricerca».
Intanto, a valle, il moto ondoso ha sbriciolato la parte della duna prospiciente il tempio dorico. La costruzione delle gabbionate in ferro e pietra naturale per bloccare i crolli, cominciata tre mesi fa, è appena terminata. Si tratta di un primo intervento di messa in sicurezza, che, però, non ha riguardato tutti i 250 metri di litorale a rischio frana, ma per ora soltanto un centinaio. Un progetto, con finanziamento “urgente e straordinario” di trecentomila euro stanziati nel febbraio 2014 dal Mibact, fatto tra l’altro di costose prove penetrometriche e complessi studi sulle correnti. «Completeremo gli altri 130 metri di duna con settecentomila euro già finanziati ma ancora da appaltare - sottolinea Iannelli - per ricostruire una parte del grande altare e un pezzo del muro di tèmenos, cioè del recinto sacro, per restaurare gli intonaci e per installare tettoie sui mosaici, ora coperti da teli, ma che nel frattempo saremo costretti ad insabbiare in modo da proteggerli dalle intemperie. Riusciremo in pratica a riparare un paio di strutture, ma se ne sono perse molte di più».
Ma quanto tempo occorrerà per terminare i lavori di consolidamento? Soluzione emergenziale o interventi definitivi? «Le previsioni sono sempre relative, forse nella seconda metà dell’anno il nuovo bando del secondo lotto di lavori - ipotizza Iannelli -, ma ad incidere sui tempi sono i cambiamenti negli uffici ministeriali, trasferimenti di soprintendenze e nomine dovuti alla recente riforma del Mibact. Noi stiamo facendo la nostra parte, adesso è la Provincia che deve fare il resto. I nostri lavori di sistemazione della duna verranno inevitabilmente meno col tempo, tra un anno o due al massimo: non reggeranno alle continue mareggiate, se continua a non esserci l’opera di difesa a mare, tramite le barriere soffolte, ovvero sommerse. La duna è fatta di sabbia, tende a sbriciolarsi naturalmente, i nostri ingegneri hanno utilizzato gabbie di ferro e pietrame per trattenere la sabbia, ma si tratta di lavori fatti in funzione di un ulteriore e necessario intervento di salvaguardia della costa da parte della Provincia. La Regione ha stanziato due milioni di euro per il progetto antierosione che, però, va per le lunghe». Caulonia e il mare, che distrugge e dà vita, luogo di transito di merci e culture. Visitare il sito archeologico di Caulonia, che ha visto un’intensa collaborazione tra Soprintendenze e Università, come quelle di Pisa, Firenze e Reggio Calabria, significa contare i passi sul ritmo della risacca in sottofondo per raggiungere la terrazza del tempio dorico sopra la duna che guarda, a picco, il mare. È qui uno degli scenari più suggestivi di quell’antica sacralità legata ai pericoli del solcare le acque. Tuttora visibili, infatti, infissi nel pavimento del tempio, sono i ceppi d’àncora, ex voto in teche di laterizio. «Sono i ringraziamenti alla divinità per essersi salvati dalla furia delle onde. Tra mancanze e ritardi dell’uomo, noi oggi - chiosa Cuteri - dovremmo piantare un immenso ceppo d’àncora, per chiedere al mare di essere clemente con il destino di Caulonia».