Parla il regista tedesco, il cui prequel di "Heimat" è in sala oggi e domani. Che riflette sulle migrazioni dal Sud del mondo, sulla capacità degli europei di confrontarsi con la diversità e sul tema di un’identità sempre meno definita

Negli anni Novanta incantò i cinefili con “Heimat”, un lungo affresco filmico sulla microstoria di un pezzo della provincia tedesca che raccontava il dipanarsi della grande storia della Germania, dalla Prima Guerra Mondiale alla fine del Millennio.

Il regista Edgar Reitz torna il 31 marzo e il 1° aprile nelle sale italiane con una produzione (distribuita da Ripley’s, Viggo, Nexo) che è il prequel di quel mastodontico progetto sull’identità privata e nazionale che gli dette fama e onori. Il nuovo film si intitola “L’altra Heimat – Cronaca di un sogno”, e descrive, in bianco e nero, la storia del giovane Jakob, appassionato lettore e desideroso di scappare verso il Nuovo Mondo. Siamo a metà Ottocento, la Germania è in profonda crisi economica e tantissimi giovani emigrano verso l’America in cerca di fortuna…

[[ge:rep-locali:espresso:285517793]]Con il regista abbiamo parlato di come certi drammi europei del passato si ripresentino oggi ai nostri occhi, in forme diverse. E così, questa lunga chiacchierata che voleva raccontare il suo nuovo film è diventata anche una riflessione sulle migrazioni dal Sud del Mondo, sulla capacità degli europei di confrontarsi con la diversità e sul tema di un’identità che purtroppo non sappiamo più bene che cosa sia diventata.

Il Mar Mediterraneo è diventato, da qualche anno, il centro delle immigrazioni dall'Africa verso l'Europa e nello specifico verso l'Italia. Secondo lei cosa può spingere dei poveri africani a spendere tutti i loro risparmi per pagare degli aguzzini che li caricano su una barca e spesso li lasciano alla deriva, rischiando la morte, a molte miglia di distanza dalla Sicilia?
Durante le ricerche per il mio nuovo film “L’altra Heimat – Cronaca di un sogno”, mi sono ripetutamente chiesto se nella vita di una persona può esistere un preciso momento in cui il suo legame con l’ambiente quotidiano, con la famiglia, con il paesaggio, le tradizioni e la lingua si possa spezzare. Finché esistono queste forze coesive, finché il pensiero circola in un percorso tradizionale e le leggi della famiglia e di una rete sociale continuano a funzionare, ogni persona cercherà di migliorare le proprie circostanze di vita sul luogo e sarà incapace di lasciare la propria terra. Il dolore della separazione sarebbe insopportabile. Quale forza è talmente potente da riuscire a spezzare il legame con il principio di realtà? È la miseria, la fame, la disperazione? Durante le mie ricerche ho trovato innumerevoli esempi di uomini e donne che, nonostante le circostanze avverse, rimangono nella propria terra e per i quali la disperazione si trasforma in rassegnazione.

Edgar Reitz
Nel 1815 in Germania fu istituito l’obbligo scolastico che portò a una vasta alfabetizzazione della popolazione rurale. Proprio nel bel mezzo della più grande miseria economica tra il 1830 e il 1850 era cresciuta una generazione di appassionati lettori. I primi quotidiani si diffusero anche in campagna e i racconti e romanzi che raccontavano dei paradisi aldilà dell’oceano appartenevano alle letture preferite. È stata questa generazione di lettori a essere capace di sradicarsi e di lasciare il proprio paese. Questa società trasformata dai racconti e dall’erudizione potremmo paragonarla alla nostra attuale società dell’informazione. Oggi non sono più i libri o le storie da “calendario” che nutrono la fantasia dei figli e delle figlie dei poveri ma la televisione, internet, lo sfavillante mondo delle immagini in movimento dei media universali. È una fantasia mobilizzata per la quale si rischia la vita. L’immaginario di un mondo sconfinato pieno di meraviglie e di gioie può diventare così potente da correre qualsiasi rischio per raggiungerlo. Una volta soppresso il principio di realtà, l’uomo è capace di qualsiasi avventura. Il disprezzo della morte di cui sono capaci gli emigrati, sembra accompagnato da una sensazione di redenzione e liberazione. Nell’esodo come descritto nel mio film, è nascosto anche in modo inconscio il motivo religioso della “terra promessa”.

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Miseria e povertà sono cause molto potenti che spingono le persone a lasciare la propria terra per cercare fortuna altrove. Secondo lei, come anche Jakob nel suo film, quanto conta nella decisione di partire il sogno di un mondo migliore?

Nel mio film ho scelto consapevolmente un protagonista, Jakob, che è un avidissimo lettore. Vediamo però anche, che con la sua fantasia viaggia al di là di ciò che gli viene trasmesso dai libri. Spinto da un’indefinita nostalgia o bramosia per un mondo migliore, si crea un nuovo cosmo. La sua geografia è una nuova creazione del mondo. E presto anche la natura reagisce alle sue immagini interiori: un uccello esotico scoperto sui libri, gli appare realmente e lascia cadere una vera piuma per Jakob oppure il vento di cui Jakob legge spazza attraverso il suo paese. I confini tra realtà e fantasia si dissolvono. Jakob diventa un mago e raggiunge il punto, dove non è più importante se lascia il suo paese oppure no. Sono gli altri che lo fanno per lui e in sua vece. È necessaria una partenza collettiva per abbandonare la propria terra, questa è l’esperienza che facciamo in questa storia.

Lo spirito della novità, la curiosità per un ambiente sconosciuto, l'aspirazione a poter soddisfare le proprie aspettative, ma soprattutto una speranza di felicità non contano quanto e più del desiderio di sfuggire alle angustie materiali?
Guardando al momento in cui le persone strappano le proprie radici e distruggono i legami emotivi, vediamo che allo stesso tempo negano il principio di realtà. La partenza è uno stato quasi sonnambulo. Come sappiamo, però, l’incontro con le realtà non tarda ad arrivare: il viaggio diventa un rischio incalcolabile e molti emigrati non lo sopravvivono. Nell’800, più del 20% delle migliaia di europei che erano partiti alla volta del nuovo mondo insieme alle famiglie, con figli e amici, caricandosi di tutti i loro averi, non sono arrivati vivi a destinazione. Come gli odierni migranti alcuni cadevano nelle trappole di truffatori e trafficanti, altri annegavano in navi colate a picco e altri ancora diventavano vittime di epidemie o crimini. Una volta giunti nel nuovo continente, spesso dovevano sopportare condizioni ben peggiori di quelle abbandonate in patria. Durante la lavorazione al film ho avuto spesso la sensazione che il prendere questo tipo di rischi per cercare un nuovo spazio vitale, appartiene alla natura dell’uomo. Credo che il rimanere venga interpretato come rassegnazione, mentre la migrazione è vista come espressione di forza creativa.

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Nella serie di Heimat precedente a questo ultimo film il tema dell'identità era molto forte. Ma un'identità troppo profonda come può mettere in marcia gli uomini che desiderano cambiare in meglio la propria condizione?

La mia trilogia di “Heimat” inizia con un episodio che porta il titolo “Nostalgia dei paesi lontani” (Fernweh). Paul, tornato al paese dopo la fine della prima guerra mondiale, un bel giorno abbandona sua moglie e i suoi figli e se ne va in America. Non sa dare risposta alla domanda sulle ragioni del suo comportamento. Dice che i piedi hanno continuato a camminare e che la sua testa era vuota. Questa storia segna l’inizio di un racconto che si porrà ripetutamente la domanda sull’identità. Risulterà che un’identità non esiste. L’identità esiste solo nel ricordo o nella nostalgia.  Quello che voglio dire è un’ambivalenza. Così come portiamo in noi un’immagine dell’ignoto, dei paesi lontani che rappresenta la felicità e può diventare una ragione di emigrazione, così al contrario esiste una visione della felicità che consiste nel ritorno a casa. Il ritorno all’infanzia o il ritorno nella pancia materna. Nonostante ambedue le visioni siano delle illusioni, rappresentano tuttavia una grande forza creativa.

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Il paesino di Schabbach, dove lei ambienta le sue storie, rappresenta il sangue e la terra, ma è solo allontanandosi che si scopre il legame con la propria terra, come Jakob in questo film, come Hermann nei precedenti. Lei è d'accordo sul fatto che solo il viaggio rende liberi e forma un'identità personale solida?

Ci sono state delle fasi nella mia vita in cui ho creduto di poter sviluppare il mio profilo personale solo viaggiando. Ero convinto di trovare la felicità solo non possedendo nulla, nessuna casa, nessuna famiglia, nessun lavoro fisso. Per me libertà significava un bagaglio leggero. Queste fasi terminavano sempre quando mi innamoravo, quando iniziavo a lavorare ad una grande progetto cinematografico, quando mi chiedevo quale storia dovessi raccontare. Il mio lavoro mi portava sempre alla stanzialità. Mantenevo però sempre anche una distanza verso i luoghi desiderati, i luoghi della nostalgia. Non ho mai, per esempio cercato di vivere nella regione del Hunsrück, dove sono ambientate le storie di “Heimat”. Sono assolutamente certo che non avrei mai potuto raccontare le storie di questa terra se fossi vissuto lì.

Schabbach potrebbe essere la sua Macondo, e di qui anche la Macondo di tutto il popolo tedesco?
C’è questa strana dialettica: mentre m’immergo nelle mie reminiscenze personali e nelle mie storie ritraggo persone che ho conosciuto personalmente succede che migliaia di spettatori dei miei film sostengono che io abbia raccontato la loro storia.  Nel corso degli anni ho ricevuto innumerevoli lettere di persone assolutamente convinte che avessi raccontato le loro vicende personali. Non dimenticherò mai la giornalista giapponese, che a Venezia mi venne incontro con le lacrime agli occhi asserendo che in “Heimat” avevo ritratto sua nonna. Evidentemente la distanza tra l’esperienza soggettiva e quella collettiva non è molto grande. I nostri sentimenti individuali molto raramente sono veramente individuali. Se capisco me stesso, verrò capito anche dagli altri. Ogni persona porta in se la sua “Schabbach”.

I cantastorie del suo ultimo film, che cercano di motivare dei poveri contadini tedeschi a intraprendere il viaggio verso il Brasile, ricordano il ruolo della televisione italiana nei confronti degli albanesi negli anni '90: una specie di sirene inebrianti che decantano una vita principesca, dove tutto è bello e positivo. Secondo lei si deve partire verso un sogno o gli idoli vanno tenuti lontani per non esserne delusi?
Naturalmente sappiamo che gli esseri umani sono seducibili. E così che lavorano la pubblicità e la politica. Credo però che le grandi emigrazioni sulla terra abbiano altre ragioni. Naturalmente non bisogna dimenticare che continuano ad esserci le guerre, che derubano gli uomini di tutto e tolgono loro ogni prospettiva. Io perciò distinguo tra migranti e profughi. Questi ultimi hanno bisogno di tutta la nostra comprensione e del nostro aiuto.

Tutti i suoi film precedenti a questo hanno descritto in maniera lucida la grande storia attraverso i piccoli episodi delle piccole vite e delle piccole storie personali. Conosceva la corrente storiografica della Microstoria, fondata in Italia da Carlo Ginzburg e Giovanni Levi?
Conosco questa corrente storiografica solo marginalmente. Può darsi che nel metodo ci sia addirittura una parentela con il mio lavoro. Ci tengo però a precisare che il mio lavoro è dettato puramente da ragioni artistiche. Io mi vedo come narratore epico nella tradizione della letteratura romanzesca. I miei maestri sono autori come Dostoevskij, Proust, Thomas Mann o nel cinema De Sica e John Ford. Nell’arte narrativa, al contrario della scienza storiografica, l’obiettivo non è la verità, ma l’autonomia del personaggio.

Nei suoi precedenti Heimat lei ha attraversato tutto il Novecento tedesco, e questo ha permesso a molti suoi connazionali di fare meglio i conti con la propria storia collettiva e, soprattutto, con i propri errori. Era consapevole di questo quando cominciò a progettare quest'opera filmica, oppure se ne è reso conto dopo?
Mi è stato detto molto spesso di aver raccontato ai miei contemporanei la loro stessa storia. Questo tipo di missione politica o educativa non è nelle mie corde. Con i miei film non volevo istruire, né volevo introdurre una sorta di classificazione morale del bene e del male. Ho sempre cercato di mantenere una certa distanza dai grandi programmi. Io appartengo a una generazione i cui genitori si sono persi nel pathos e nell’idea della grandezza. Non volevo avere nulla a che fare con questo tipo di concezione e di visione del mondo e mi sono sempre dedicato alle piccole cose umane. Per questo non ho mai pianificato i miei film come concetti drammaturgici. Ho iniziato solo nel momento in cui mi innamoravo dei miei personaggi. Non potrei mai girare un film su persone che detesto. Forse questo e la mia massima più importante: devo amare i miei personaggi per potergli dedicare un film.