Il testa a testa della vigilia si è trasformato in una solida affermazione dei Conservatori. Crollo per Miliband, si affermano gli indipendentisti Scozzesi. Il fondatore dell’Ukip: “La consultazione sull’Unione ci sarà, ma purtroppo l’obiettivo dell'inquilino di Downing Street è di restarci"

E dire che fu proprio un conservatore, l’ex premier Edward Heath, a portare il Regno Unito dentro la Comunità Europea: era il 1973, ed era venuto meno il veto di De Gaulle che aveva visto nell’Inghilterra un “cavallo di Troia” americano. Fa specie pensarlo nella notte in cui David Cameron, il primo ministro Tory, si aggiudica una solida vittoria alle elezioni politiche, rendendo un referendum sull’uscita dall’UE praticamente inevitabile.

La promessa di mettere la “Brexit” ai voti, entro il 2017, è stata in parte il risultato della crescita poderosa dell’Ukip, il partito anti-Bruxelles di Nigel Farage che ha spinto i Conservatori ad assumere posizioni sempre più euroscettiche e anti-immigrati.

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Proprio il fondatore dell’Ukip, Alan Sked, dice però parole rassicuranti a l’Espresso: “il referendum sull’Unione ci sarà, ma purtroppo l’obiettivo di Cameron è di restarci. Cercherà di ottenere una ritrattazione di quell’articolo, nel trattato di Roma del 1956, in cui si parla di una “ever closer union”, cioè un’integrazione progressivamente sempre più stretta. Noi ne siamo di fatto già esentati, da quando abbiamo rifiutato l’unione monetaria, ma lui lo presenterà come un trionfo politico e convincerà gli inglesi a restare”. Chissà se le sue parole basteranno a rassicurare l’immigrata italiana a Londra Rossana Losa, che la scorsa notte aveva fatto un incubo terribile: Cameron vinceva le elezioni, e uscendo dall’Unione cacciava tutti gli immigrati. Compresa lei.

Alla vigilia, i sondaggi d’opinione raccontavano una storia tutta diversa. Nelle analisi degli esperti non vi era traccia della solida maggioranza relativa con cui Cameron andrà a sottoporre alla regina il suo nuovo governo di coalizione, rialleandosi con i liberal-democratici (decimati rispetto alle elezioni 2010) oppure solamente con il Partito Unionista Democratico dell’Irlanda del Nord.

Raccontavano piuttosto di un testa a testa con il Labour che avrebbe portato ad un immobilismo politico senza precedenti: la fine del bipartitismo, e probabilmente la messa in discussione del sistema elettorale uninominale maggioritario secco, il cosiddetto “first past the post”. “Non è democratico nella misura in cui lascia fuori dal parlamento i partiti minori, visto che in ognuna delle 650 circoscrizioni viene eletto solo il primo candidato”, diceva all’Espresso Natalie Bennett, la leader dei Verdi, “e ora ha perso anche la virtù di dare vita a governi stabili, vista la crisi dei partiti tradizionali”.

Con la vittoria di Cameron la riforma della legge elettorale difficilmente sarà fra le priorità del nuovo governo, anche se le storture dovute al First Past the Post sono state molto significative. Il Partito Nazionalista Scozzese, grazie alla concentrazione territoriale del suo elettorato, sarà il terzo partito per numero di seggi a Westminster nonostante abbia ricevuto molti meno voti di partiti come Ukip o Verdi, che riusciranno a malapena a infilare in parlamento un paio di candidati.

A nord del vallo Adriano il Partito Nazionalista Scozzese sfiora dunque l’en plein, aggiudicandosi quasi tutti i 59 seggi disponibili. Il professore di Scienze Politiche della London School of Economics Patrick Dunleavy lo definisce uno “tsunami”: “il Labour è stato letteralmente spazzato via”, dice, “la Scozia è stata la sua roccaforte più fidata dagli anni ‘80”. “E’ la fine dell’Unione, assisteremo al disfacimento del Regno Unito nei prossimi anni”, gli fa eco amaro il direttore della LSE Craig Calhoun, alludendo alla verosimile possibilità che i nazionalisti tornino a spingere per la secessione. Gli ingredienti per prevedere un nuovo referendum in Scozia, in effetti, ci sono tutti. Tema dominante della campagna per la separazione, terminata con una vittoria di misura degli unionisti il 18 settembre scorso, era infatti la cosiddetta “questione democratica”: come mai una nazione rossa come la nostra, dicevano i secessionisti, deve farsi governare dai conservatori? Come mai noi, ferventi europeisti, dobbiamo farci rappresentare a Londra da un esecutivo di euroscettici? Se il Regno Unito dovesse votare per uscire dall’UE, la secessione della Scozia seguirebbe quasi in automatico. In caso contrario, David Cameron dovrà comunque concedere il massimo della devolution per scongiurare un nuovo referendum.

Che cosa ha sbagliato dunque Ed Miliband, il numero uno laburista che ora rischia la leadership, come anche il suo collega liberal-democratico Nick Clegg? “Non è riuscito a trasmettere fiducia rispetto al tema delicato dell’economia”, commenta l’esperto di politica inglese Tony Travers, “i conservatori sono riusciti ad abbassare il deficit e la disoccupazione, anche se la produttività arranca e i salari rimangono bassi”. “Miliband”, continua Travers, “ha spaventato gli imprenditori con le sue proposte interventiste in economia, ed è apparso poco affidabile rispetto alla diminuzione del debito, questione a cui l’elettorato tiene molto”. Durante tutta la campagna elettorale David Cameron ha portato con sé l’appunto con cui, su carta intestata di Westminster, il vice-ministro dell’economia del governo uscente di Gordon Brown passava il testimone al collega conservatore nel 2010: “sono desolato, ma non c’è più un centesimo”.

La narrativa per cui i mali dell’austerity sarebbero toccati al Regno Unito a causa delle spese scriteriate dell’ultimo governo Labour, invece che a causa della crisi finanziaria, ha convinto l’elettorato inglese. O perlomeno una parte sufficiente a riconsegnare le chiavi di Downing Street a David Cameron, che a breve rifarà il suo ingresso trionfale al “number 10”.