Sei anni e mezzo per truffa e associazione a delinquere nel procedimento di secondo grado. Per l'accusa il manager e gli altri imputati avrebbero truffato lo stato e ottenuto fondi pubblici indebitamente
Questa volta
Fabio Riva ha voluto metterci la faccia. Rientrato in Italia da un paio di settimane fa dopo 2 anni e mezzo spesi tra latitanza e arresto a Londra, e subito tradotto al carcere di Taranto, si è presentato davanti alla quarta sezione della corte di Appello di Milano per ascoltare la sentenza che lo riguarda per il caso di associazione per delinquere finalizzata alla truffa ai danni dello stato.
Si tratta delle operazioni a danno della
Simest, la società della Cassa depositi e prestiti che eroga i fondi pubblici della legge Ossola in aiuto alle esportazioni, per cui ha preso in primo grado 6 anni e sei mesi di reclusione. Allora era in contumacia, ma non si può certamente dire che la presenza in aula gli abbia portato fortuna, così come non ha giovato il cambio di difensore tra i due gradi di giudizio: la corte presieduta da Luigi Martino ha infatti confermato le accuse e lo ha condannato a sei anni e sei mesi di reclusione. Conferma di condanna a cinque anni anche per Alfredo Lo Monaco, il titolare della società Svizzera Eufin Trade ritenuto coautore e per l'ex amministratore di Riva Fire Agostino Alberti, che ha preso tre anni. Confermata anche la condanna alla holding di famiglia Riva Fire per la responsabilità amministrativa ex legge 231 del 2001 e la confisca di beni e denaro per una novantina di milioni di euro, il frutto di questa truffa.
L'accusa, sostenuta dal sostituto procuratore generale Piero de Petris (lo stesso del caso Berlusconi - Ruby), è stata molto netta durante la discussione nell' udienza dell'8 giugno - la prima -: il meccanismo attraverso il quale l'
Ilva ha attinto ai fondi pubblici è artificioso e si fonda su due società svizzere, la Ilva sa, una semplice "emanazione" della casa madre utile solo ad attrarre fondi non dovuti e la
Eufin Trade di Lo Monaco, la sponda consapevole di questo disegno.
Anche l'ex commissario straordinario di Ilva
Enrico Bondi, è la tesi di de Petris, era consapevole che quei giri finanziari legati all'export di tubi fossero non conformi alle norme, talmente tanto che dopo essersi informato in Simest ne aveva sospeso l'operatività, beccandosi del "fesso" come si capisce da una gustosa intercettazione tra un dirigente Ilva e un funzionario Eufin Trade agli atti della procura che aveva originariamente indagato: «Sì, la nuova direzione, qui, gli puzzano i soldi. Facevamo i business finanziari, no, non va bene, non gli piacciono, qui al commissario e a tutta la sua banda... e allora non scontiamo più (le promissory note, ndr), basta».
Continuava il manager Ilva: «È un business della miseria, gli puzzano i soldi al nuovo commissario? Stanno rivoluzionando più Milano che non Taranto. Era da sanare
Taranto, sembra che devono sanare gli uffici di Milano, cacchio, che casino». Per poi concludere con una dichiarazione plateale: «Che strana banda è la banda del Commissario, non ha imparato l’Abc, pecunia non olet».
Per l'avvocato Giampaolo Del Sasso, il nuovo legale di Riva, lo scopo della legge Ossola era quello di favorire le
esportazioni, e il contribuito percepito da Ilva era solo il risultato di quella desiderata attività. In sostanza, se Ilva esporta grazie all'aiutino della Ossola la norma ha raggiunto il suo scopo e l'economia italiana ne ha un giovamento più che proporzionale rispetto all' impegno finanziario. D'altronde i funzionari Simest avevano sempre vagliato tutta la documentazione e non avevano rilevato irregolarità.
La Simest dopo la sentenza di condanna è corsa ai ripari emanando due circolari nelle quali richiede maggiori documentazioni per evitare che accadano casi simili in futuro, ma questo argomento è stato utilizzato dalle difese per affermare che prima di quelle circolari quella operatività non fosse vietata, ma la norma che disciplina la truffa opera a prescindere da una circolare attuativa, dato che è di rango superiore.
Il processo Simest è solo un
tassello del puzzle giudiziario a carico di Fabio Riva, che ha ascoltato la sentenza con un'apparente calma e che ha salutato la lettura del dispositivo con una smorfia. Si è subito riseduto e ha chiesto alle guardie penitenziarie di attendere qualche minuto per essere portato via, senza rispondere a nessuna domanda.
Sempre a Milano la procura indaga su di lui con un ipotesi di
bancarotta mentre a Taranto il procedimento per disastro ambientale è in udienza preliminare. A breve, si spera, dovrebbe anche rientrare dalla Svizzera il miliardo di euro che la famiglia Riva aveva sottratto alle casse dell'acciaieria e che è vincolato al ripristino e alla messa in sicurezza delle aree inquinate dello stabilimento di Taranto, la città nella quale questa vicenda è ancora una ferita lacerata.