La fragile tregua è già saltata. E pare inevitabile un altro conflitto aperto. Viaggio tra le paure degli abitanti della roccaforte filorussa di Sloviansk

ucraina, sloviansk
Imbrattato di vernice rossa, il massiccio Lenin (7 tonnellate di puro bronzo) sembra sanguinare mentre la gru lo rimuove adagiandolo piano in terra, risparmiandogli “civilmente” le martellate. È l’ultima vittima della de-comunistizzazione lanciata da Kiev. Un avvertimento a Mosca. Ma anche un trattamento di riguardo per un luogo speciale. Sul piedistallo vuoto ora sventola una bandierina ucraina, e la scritta: “Lustrazia! (pulizia, ndr). Il separatismo non passerà”.

Un anno fa Sloviansk era la roccaforte dei ribelli filorussi più radicali in Est Ucraina, città-simbolo della rivolta contro Kiev. Proprio qui cominciò la guerra nel Donbass. Dopo tre mesi di assedio, bombardamenti dell’artiglieria ucraina e vittime civili, il 5 luglio 2014, col ritiro “strategico” delle milizie, è tornata in mano alle forze ucraine. Ma la vittoria ha un retrogusto amaro. E la guerra, per i suoi abitanti, è tutt’altro che finita. La città è ancora nell’area “operazioni antiterrorismo” (Ato) dell’esercito, a 40 chilometri dalla linea del fronte coi territori ribelli.

KIEV L’HA TRASFORMATA IN VETRINA del patriottismo nazionale. Fino al grottesco. Ogni cosa è ridipinta di gialloblu, i colori della bandiera nazionale: panchine, botteghe, cancelletti delle aiuole, autotrasporti, persino gli abiti di alcuni impiegati pubblici. Nel fine settimana caroselli di auto, quasi a marcare un territorio incerto, attraversano il centro sventolando bandiere ucraine, e depongono fiori alle tombe dei soldati caduti in guerra: sono quelli di “Gurtom” (Insieme), uno dei tanti gruppi di attivisti pro-Kiev fioriti dopo la “reconquista”. Sloviansk «è un simbolo del rilancio del Donbass», ha detto il 29 maggio il presidente Poroshenko visitando la città. Per lui, Kiev combatte «una vera guerra» con la Russia. Lo stesso giorno, da Donetsk il leader separatista Zakharchenko ha annunciato di voler riprendere Sloviansk, Konstantinivka e Krasnoarmiysk. In barba agli accordi di Minsk.

La paura di un nuovo ribaltamento è palpabile. Come la diffidenza reciproca. All’ingresso del Comune c’è un cartello: “Come riconoscere il separatista in mezzo a noi”, con tanto di istruzioni e numero della hot-line gratuita: “Separatista è chi si oppone alla mobilitazione armata, attende con speranza l’arrivo di Putin, e diffonde panico e menzogne”. Pena: fino a 12 anni di carcere. “Che fare se in città iniziano azioni belliche?”, recita un altro manifesto: “Tenete pronta una valigia per l’evacuazione”. Al quarto piano sono in mostra i disegni degli alunni vincitori del concorso “La tua città del futuro”: per i piccoli premiati, Lenin è da tempo sparito dalla piazza.

Nella Biblioteca comunale un gruppo di donne intreccia reti mimetiche per i soldati al fronte. «Siamo volontarie, veniamo a turno dopo il lavoro, i nostri soldati ne hanno molto bisogno». La pace? «Qui tutti viviamo nella paura che da un giorno all’altro tornino i separatisti. Ci sentiamo insicuri, nessuno fa progetti, i russi non ci lasceranno in pace». La città è divisa, ammettono, «persino all’interno delle famiglie, tra padri e figli». Elena Shestopalova, ex giornalista in un quotidiano locale in lingua russa, ha accolto «i soldati liberatori con le lacrime agli occhi», e ricorda con orrore i crimini del «sindaco separatista» Ponomariov e del colonnello russo Strelkov: presa di ostaggi, accuse di torture, esecuzioni extragiudiziali di dissidenti, legge marziale arbitraria: «Siamo ancora traumatizzati. La mia amica Ira non vuole più parlarmi: lei all’arrivo delle truppe di Kiev si è sentita “violentata”». L’incertezza è forte: nessuno si azzarda a fare investimenti. E la grave crisi economica peggiora tutto. In città da quattro giorni manca l’acqua.

«CREDO SIA QUESTA, LA GUERRA ibrida di Putin: tenerci in costante tensione per non far sviluppare l’Ucraina», dice Denis Bigunov che lavora all’ufficio stampa comunale. Per lui, il rischio di un nuovo conflitto «è reale. Aspettiamo in ogni momento un’avanzata. Non possiamo più essere neutrali». La paura è reciproca. Nei sobborghi di Andreevka, Nikolaevka e Semionovka, i più martoriati dalle bombe e ancor oggi un paesaggio di rovine, gli sconfitti denunciano un clima di odio, abusi e rappresaglie nella “caccia ai traditori”. «Kiev dice che ci hanno liberati», osserva Valentina, 64, che non nasconde di aver appoggiato i ribelli, nella sua misera dacia per metà adibita a pollaio: «Ma per me è una nuova occupazione, non possiamo parlare, dire nulla contro il governo, minacciano di arrestarci solo per le nostre idee». I miliziani “terroristi”? «Mezza città lo era o stava con loro! Ora vogliono farci credere il contrario. E i nostri ragazzi non possono più tornare a casa». Dopo la caduta di Sloviansk, circa 5000 ex combattenti separatisti sarebbero fuggiti a Donetsk. Alcuni loro nomi sono nella lista dei ricercati affissa nella sede della polizia locale. Ma molte loro famiglie sono ancora in città. E chi torna dalle zone ribelli, ha uno stigma impresso sulla fronte.

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Un caso spinoso è quello di Sergey Kushiov: 50 anni, è il padre adottivo dei 10 bambini rannicchiati in un rifugio antibombe immortalati da Andy Rocchelli, il fotoreporter italiano ucciso a Sloviansk il 24 maggio 2014. Kushiov il 23 febbraio è stato sequestrato da “ignoti” davanti casa. Un mese dopo è riapparso nella lontana Dnipropetrovsk, arrestato con l’accusa di “terrorismo”: avrebbe passato ai ribelli informazioni sull’esercito ucraino. Per la moglie Liudmila avrebbe subito torture. Il 6 aprile è stato liberato, il Procuratore generale ucraino ha ordinato un’inchiesta sui presunti maltrattamenti. Ma la famiglia ha ricevuto nuove minacce.

«L’ATMOSFERA È TESA», AMMETTE Oleg Zontov, attuale sindaco facente funzioni. «Ora il nostro problema maggiore è la pacificazione interna, dobbiamo ridurre questa polarizzazione». Un’apposita commissione venuta da Kharkiv si occupa di mediazione. Lui stesso è stato accusato di separatismo dai “patrioti”, per aver proposto come proprio vice un ex del partito di Yanukovich: il parlamento cittadino è ancora composto in maggioranza dai deputati del vecchio regime. «Non ci fidiamo di loro», dice Myhailo Necheporenko, presidente di Gurtom. I suoi vedono spioni, collaborazionisti e traditori ovunque, dalla polizia ai pope delle chiese locali, tutte obbedienti al Patriarcato di Mosca: «Purtroppo non possiamo epurarli», dicono. Lenin? Ora la statua è in vendita a 250mila dollari, anche su e-Bay. Gli anziani (metà dei 130mila abitanti), nostalgici, inorridiscono. E non solo loro.

In città sono registrati anche 30mila profughi dai “territori occupati”: l’emergenza non è finita. Trenta chilometri a nord Sviatohirsk, vecchia colonia di vacanze creata da Stalin per i minatori sovietici, ne ospita un migliaio. Anche loro parlano di guerra non al passato, ma al presente. Nel vecchio monastero oltre il fiume, aiutati da volontari locali, stanno gli ultimi fuggiti da Debaltseve, ripresa il 18 febbraio dai filorussi nonostante gli accordi di Minsk.

Nessuno vuole o può tornare a casa. Nel bosco di pini “Sherwood”, 150 profughi dalla provincia di Donetsk vivono in una comune auto-gestita nel campeggio infestato di zanzare-tigre: hanno una mensa, una cassa comune. «Pensavamo di tornare dopo due settimane. È passato quasi un anno e siamo ancora qui», raccontano i coniugi Lena e Volodymir Makarenko fuggiti a giugno dal villaggio di Avdeevka, sede di uno strategico impianto di coke, pochi giorni fa colpito da nuovi bombardamenti. «La nostra casa è ancora in piedi, ma laggiù non c’è elettricità né acqua né lavoro. Sono rimasti solo i vecchi. I nostri vicini vivono in cantina, cinque famiglie». Una guerra a bassa intensità, la chiamano.

LA GUERRA RICOMINCIA subito fuori Sloviansk. Checkpoint, spostamenti di truppe ucraine che si intensificano scendendo a sud verso la cosiddetta “linea di contatto” del conflitto, quei 30 km di “zona grigia” creati a Minsk per fare da cuscinetto tra forze ucraine e ribelli. Dietro la svolta per Siversk, prima di Artemivsk, è parcheggiata una colonna di blindati. Dalla collina sopra Kurohovka, un pugno di dacie di legno e girasoli in campo “neutrale”, incombono lunghe trincee scavate di fresco, un Bmp (veicolo da combattimento) camuffato, filo antimine. Per le strade striscioni: “Gloria agli eroi”, “Il Donbass è Ucraina”, foto di militari morti, pubblicità con uomini in giubbotto antiproiettile che abbracciano bambini.

Nel quartier generale Ato a Kramatorsk, l’ufficiale Vadim indica le mappe sul muro: «Guarda. Non c’è una linea del fronte precisa, la demarcazione si sposta di continuo. La guerra qui è una zona grigia». Mostra le foto di un “drone russo” appena abbattuto, parla degli ultimi due militari di Mosca catturati da Kiev che hanno «confessato»; di «sabotatori ovunque». Su un tavolo una decina di pubblicazioni speciali della Difesa per gli abitanti dei “territori occupati”, parole d’ordine: “mobilitazione, unità, vinceremo”, e le foto segnaletiche dei “capi criminali della Novorossia”.

La zona grigia comincia subito dopo Artemivsk, al checkpoint di Maiorsk, primo di tre oltre i quali ci sono le linee nemiche. Da fine gennaio il governo ucraino, per bloccare il “contagio” separatista, ha introdotto un rigido sistema di permessi per chiunque voglia entrare o uscire dalle due autoproclamate repubbliche ribelli. Una “punizione” secondo molti residenti, sempre più isolati dal resto del paese. E Kiev ha sospeso l’erogazione dei servizi sociali nelle zone separatiste: per ricevere la pensione, ogni mese gli anziani devono recarsi sul territorio controllato dagli ucraini. La coda di automobili è lunga, sotto la calura. Gli autobus si fermano al posto di blocco, i passeggeri proseguono a piedi. Passano circa 850 vetture al giorno, profughi o residenti di entrambi le parti: famiglie, coppie con bambini, vecchi. In cerca di lavoro, soldi (i bancomat nella “Dnr”, la Repubblica popolare di Donetsk, non funzionano), cibo a prezzi economici e medicine. Chi va in senso inverso ha l’auto carica di coperte, latte e pane: va a trovare i parenti, controllare se la casa è ancora in piedi, piantare patate. Da Horlivka arriva Marina Chuikova: «Da noi ora sparano di notte, di giorno è tranquillo. Certo meglio dell’ultimo inverno quando volavano i Grad. Ma fabbriche e miniere sono chiuse, gli anziani alla fame, le case in macerie. Serve una via d’uscita, non ne possiamo più». A passarsela peggio sono i villaggi della zona grigia, come Maiorsk, una vera terra di nessuno: «Territorialmente appartiene al comune di Horlivka, tenuto dai ribelli, ma è in territorio ucraino. Non riceviamo alcun servizio pubblico. Siamo alla disperazione».

DI GUARDIA COI SOLDATI tra i sacchetti di sabbia c’è Vitali, un pogranichnik, poliziotto di confine: che ci fa qui? «Di fatto questa ormai è una frontiera», ammette reticente. «Tanto vale fissarla in qualche modo. Che trovino un accordo, la gente è stanca». Persino lui fa fatica a dire dove cominci il grigio: «Se ci siamo noi, significa che qui è Ucraina. Fin dove puoi vedere le nostre bandiere».

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