È stato cattivo tenente, eroe romantico, struggente regista nel film “Youth” ?di Sorrentino. Ma lui dice di essere, ancora oggi, quello che era da ragazzo: ?un marine. « La vita è bellissima. ?Non sappiamo da dove veniamo né dove andiamo, ma siamo qui. E tutto ?è un gioco. Anche la morte»

Harvey Keitel non è mai stato protagonista di un blockbuster. Non è mai stato in un film di azione di quelli che costano una fortuna e generano incassi con tanti zeri. 108 film in quasi mezzo secolo, non ha mai vinto Oscar né Golden Globe, solo una volta nel 1992 ha avuto una nomination per essere stato un killer implacabile in “Bugsy” di Barry Levinson. Non è mai stato bello, non ha cicatrici, fossette o segni fisici particolari, eppure dici Harvey Keitel e tutti lo riconoscono. Attraverso il suo volto, passa un bel pezzo di storia del cinema moderno.

La storia inizia nel 1967. Era tornato nella sua Brooklyn dopo tre anni coi Marines, vendeva scarpe e faceva lo stenografo in tribunale per pagarsi i corsi all’Actor’s Studio di Elia Kazan e Lee Strasberg. A 27 anni Keitel rispose all’annuncio di uno studente di cinema della New York University che cercava un protagonista per il film della laurea. Si chiamava Martin. Martin Scorsese. E il film l’intitolò “Chi sta bussando alla mia porta?” . Poi vennero “Mean Streets” (1973), “Alice non abita più qui” (1974), “Taxi Driver” e “L’ultima tentazione di Cristo”.

Keitel ha segnato il decollo di altri due registi: Ridley Scott con cui ha fatto “I duellanti” e “Thelma and Louise” e Quentin Tarantino, con cui è stato il memorabile Mr. White in “Le Iene” e The Wolf in “Pulp Fiction”.
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Ha lavorato con Robert Altman in “Buffalo Bill e gli indiani”; Spike Lee in “Clockers”; Jack Nicholson in “Il grande inganno”; Theo Angelopoulos in “Lo sguardo di Ulisse”; Wes Anderson in “Fuga d’amore” e l’anno scorso “Grand Budapest Hotel”.
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È stato il poliziotto corrotto e tossico de “Il cattivo tenente” di Abel Ferrara e l’eroe romantico di “Lezioni di Piano” di Jane Campion: ruoli distanti anni luce, in comune il fatto che Keitel è apparso integralmente nudo.
In omaggio alle sue origini, ci sono poi i film con i registi italiani, a partire da Ettore Scola con “La nuit de Varennes”. Roberto Faenza ne ha fatto un tenente della narcotici di New York in “L’assassino di poliziotti”, Lina Wertmüller lo assolda per “Un complicato intrigo di donne, vicoli e delitti”, Damiano Damiani per “L’inchiesta”. Ma ha lavorato anche con Carlo Lizzani, Dario Argento, Giovanni Veronesi, Sandro Citti, Renzo Martinelli. E ora con Paolo Sorrentino. Che in “Youth” lo ha trasformato in Mike Boyle, regista al crepuscolo intestarditosi a voler fare il suo film-testamento che finisce per suicidarsi.
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Una vita da raccontare, quella di Keitel. Lo ha fatto con “L’Espresso” in una mattinata calda e afosa di giugno. Appuntamento a The Odeon,  ristorante nel cuore di Tribeca, all’angolo di West Broadway e Thomas Street. Harvey, 76 anni, ci arriva dopo la sua oretta di nuoto, jeans e maglia grigia. Sceglie un tavolo sulla strada, ogni tanto scambia due chiacchiere con un passante che conosce o un turista che gli chiede di posare con l’iPhone, e lui si presta. Invece del killer spietato, del tossico disperato e del protettore cinico, ho davanti a me un mite signore di una certa età. Un uomo che ha vissuto.

Perché qui all’Odeon?
«Abito a pochi isolati e ci vengo da anni. Anche se ogni volta mi sento un po’ ridicolo. Da ragazzo avevo questa fantasia di un trench di pelle, e 25 anni fa me ne sono finalmente fatto uno. Mi vergognavo un po’ a usarlo. Il giorno di una grande nevicata me lo infilo però, e vengo qui. Apro la porta e sento: “Guarda guarda, il vecchio Harvey col trench di pelle”.  Era Jack Nicholson. Ogni volta che torno qui penso a lui».

“Youth”, di Sorrentino, è una meditazione sulla vecchiaia. Lei si sente vecchio?
«No. La vecchiaia è un fatto mentale e io non penso molto all’età, agli anni che passano, se non in situazioni come questa o quando qualcuno mi costringe a pensarci. Non mi sento vecchio perché penso di cambiare ogni giorno e continuerò a farlo anche nella morte. Siamo sempre tra la vita e la morte. Intanto la mia vita va avanti un po’ come un sogno, un bellissimo viaggio dove continuo ad avere fantastiche opportunità, come questa di lavorare con Paolo».

Chi ha cercato chi?
«Sono stato io a cercare lui. Avevo visto “Il Divo”. “La Grande bellezza” l’anno scorso mi parve non il più bel film straniero ma il più bel film in assoluto. Avevo appena cambiato agente, gli ho detto che volevo  lavorare con Paolo. E Paolo mi ha chiamato. Ci sono registi che sanno che tu sai e che tu sai che loro sanno: con lui è andata così. Non c’è stato bisogno di tante spiegazioni.  Più che lavoro, mi sembrava di uscire ogni giorno con una donna nuova: euforizzante».
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Molti film, recentemente, hanno per protagonisti uomini di una certa età.
«Bella cosa, dopo anni di film concepiti per i teenager. I Greci ci erano arrivati un paio di migliaia di anni fa: il teatro per discutere dei problemi della comunità e rappresentare tutti».

Sorrentino è solo l’ultimo di molti registi italiani. Da dove viene questa sua affinità con l’Italia?
«Mia madre era un’ebrea rumena. Mio padre... era un po’ complicato. C’era sangue italiano, ma sono cresciuto in una famiglia ebrea di Brooklyn, anzi Coney Island. Il mio primo lavoro è stato con Scorsese. Con Marty ci siamo subito identificati e siamo ancora molto amici: siamo due mammoni. E con gli altri è successo, ho avuto la fortuna di lavorare con la Wertmüller, Scola, Roberto Faenza, Damiani, Citti, Dario Argento. E con Renzo Martinelli, che anni prima che succedesse nella realtà ha voluto come protagonista un occidentale che si converte  all’Islam e si unisce a gruppi anti-Occidente. E poi come posso dimenticare Carlo Lizzani? Con “Gorbaciov” mi ha aperto gli occhi sul comunismo, ho imparato un sacco con lui. Poi è finita come è finita, chissà cosa gli ha preso (si riferisce al suicidio di Lizzani, gli occhi gli si fanno umidi, ndr.)».

Altro “mezzo italiano” importante nella sua vita è Robert De Niro.
«Bob lo conoscevo dall’Actor’s Studio. Marty mi chiese di lui, io dissi che non avrebbe potuto trovare un attore più bravo. In “Mean Streets” io avrei in realtà preferito esplorare il percorso di Johnny Boy e Robert avrebbe voluto essere Charlie. Marty ha voluto il contrario, ma sapevamo che con noi tre assieme sarebbe comunque andata bene. Bob continua a segnare la mia vita: ho conosciuto mia moglie Daphna a Roma, a una festa in suo onore, e l’ho rivista anni dopo a un’altra festa sempre per Bob. Pochi mesi dopo ci siamo sposati, 11 anni fa è arrivato nostro figlio Roman e che giorno era? Lo stesso del compleanno di Bob.  Mi perseguita...».

Sono passati oltre 40 anni dai tempi dei primi film con Scorsese. Cosa prova ricordando quei giorni?
«Penso che sono fortunato perché ci siamo incontrati e abbiamo fatto assieme un lungo percorso. Penso all’Actor’s Studio, al fermento di quei giorni in cui non si facevano film sul nulla, a noi che miravamo, non a diventare divi, ma attori eccellenti. Oggi contano i soldi e  la fama, ma allora l’arte aveva una considerazione diversa. Ricordo che una volta uscii con una bellissima ragazza e la portai a vedere Pasolini, “Il vangelo secondo Matteo”. Mi dimenticai di lei, la mia attenzione era tutta sul film. Che non ho mai dimenticato. E la ragazza? Non lo so più. Lei l’ho dimenticata».

Si sente un puro?
«In realtà mi sarebbe piaciuto fare più film di cassetta. Hollywood è una macchina alimentata dai soldi e coi soldi ti compri la libertà. Tutti vogliono il denaro, la questione è come guadagnarlo in modo onorevole. Ho detto no a molte occasioni, ho rifiutato due milioni di dollari quando due milioni erano molti soldi. Forse avrei dovuto essere più furbo. Alcune di quelle parti avrei dovuto prenderle. Alla fine, comunque, ho avuto un altro genere di soddisfazioni».

Cos’è successo? Con gli anni è diventato più cinico?
«Non più cinico: più realista. Non so chi ha detto che un giovane che non ha mai pianto è un cinico e un vecchio che non ha mai riso è un folle. Non è che esista solo la scelta tra il denaro o la verità di un personaggio. Ci sono anche le vie di mezzo».

Lei avrebbe dovuto avere il ruolo del capitano Willard in “Apocalypse Now”, al posto di Martin Sheen. Invece Coppola la licenziò durante le riprese. Vogliamo parlarne?
«Ero molto più giovane, e anche Frances. Eravamo su due percorsi diversi. E poi io sono un Marine, e lui no».

Che c’entra?
«Dopo due settimane sul set e una di riprese, i tipi della Paramount vengono da me e pretendono di mettermi sotto contratto per 5 anni. Loro volevano comprarmi, io non potevo farmi comprare».

Ma perché un Marine si dà al cinema?
«Avevo 17 anni. Io e i miei amici di Brooklyn cercavamo avventura e identità. I Marines me l’hanno data, insieme alle prime nozioni di eroismo e mito. Ricordo una notte durante i primi mesi di addestramento: eravamo nelle paludi della North Carolina, era buio e io avevo paura. Non volevo che gli altri se ne accorgessero, ma avevo paura. Di colpo una piattaforma, la sagome di un ufficiale e una voce rimbombante. Ricordo ancora che disse: “Abbiamo tutti paura del buio”. Rimasi di sasso, come lo sapeva? Ma è vero, abbiamo tutti paura di ciò che non sappiamo. Mi viene ancora la pelle d’oca. Guardi il mio braccio destro: “Once a Marine always a Marine”, diciamo noi: se sei stato un Marine lo sarai per sempre. È così: valori come lealtà e fedeltà ti rimangono per sempre e ti danno un codice di vita. Specie quando finisci nel business in cui sono andato a infilarmi io».

Per alcuni lei è quello sempre nudo.
«Gli attori raccontano delle storie e per farlo occorre coraggio. Cerchi la verità del personaggio. È questa ricerca a dirti se per farlo dovrai essere vestito o nudo».

Lei è un uomo che ha ancora speranze?
«Io penso che la vita sia bellissima. Che va vissuta ogni giorno perché poi finisce. Non sappiamo da dove veniamo, non sappiamo dove andiamo ma siamo qui, siamo presenti. I buddisti sostengono che dobbiamo vedere tutto come un gioco, anche la morte. Ecco, io continuo a giocare».