Li hanno usati per le missioni spaziali, per testare farmaci, per far ridere al cinema. Dopo anni di "Lavoro" per gli umani, questi scimpanzé hanno trovato casa in una riserva protetta. Dove finalmente sono liberi
Provate a guardare bene in faccia uno scimpanzé. Osservalelo mentre giocherella con un bastoncino per cavar fuori dal terreno una colonia di prelibate termiti. Mentre spulcia il suo compagno. O facendo finta di niente, rubacchia una mela. Se non potete andare in una riserva (meglio di tutte quella di Gombe, in Tanzania, voluta da Jane Goodall), mettetevi comodi e guardatevi queste foto: non avrete scampo. Sguardi, gesti, ammiccamenti vi trascineranno in una totale empatia, perché, c’è poco da fare, loro sono noi.
O meglio, sono noi al 99 per cento: perché tanta è la coincidenza del loro genoma col nostro. Ed entrambi abbiamo un antenato comune. Poi, 4 milioni di anni fa è successo qualcosa. E le nostre strade si sono divise. Noi lanciati alla conquista del mondo grazie alle gambe lunghe e alla lingua sciolta; loro confinati nelle savane africane, tra il Senegal e la Tanzania, a spidocchiarsi felici, vivendo in bande, accoppiandosi a piacere nella certezza che sarà il gruppo ad occuparsi collettivamente dei piccoli, dandosi una mano a vicenda. Niente male, no?
[[ge:rep-locali:espresso:285156024]]E se non fosse per quel maledetto 99 per cento di coincidenza con la specie più prepotente del creato, nessuno di loro sarebbe stato sottratto a quella bella vita: ad esempio, si sarebbero risparmiati di essere mandati nello spazio per testare come ci starebbe un uomo; di essere usati dai militari; di vivere nelle gabbie degli istituti dove si cercano, e, grazie a loro, si trovano vaccini e farmaci antivirali. Senza il loro sacrificio non ci sarebbero medicine contro l’Aids e milioni di persone morirebbero; non ci sarebbero metodi di prevenzione dalle peggiori malattie virali. Perché se non lo facessimo sugli scimpanzé, dovremmo sperimentare sull’uomo. E di certo nessuno ha intenzione di farlo, almeno dagli anni Cinquanta a oggi (quel che è accaduto prima tra la Germania e l’Ohio meglio lasciarlo da parte).
Così accade che, lontani dalle loro luminose savane, vivono negli Usa, in Europa, in Russia o in Giappone migliaia di nostri cugini sfortunati. Catturati per darci una mano. Ma anche per fare da animali da compagnia (ne aveva uno persino Gary Cooper) o per recitare nei film. E poi? Cosa succede delle scimmie che scendono dallo spazio, che sopravvivono alle sperimentazioni, che vanno in pensione a Hollywood? Sappiamo che Cheeta, compagna fedele di Tarzan nei vecchi film in bianco e nero, è morta di recente a 80 anni. Ma gli altri? Di 11 attori involontari abbiamo notizie: se ne prende cura “Save the Chimps”, un’organizzazione non profit che ha messo in piedi, in Florida, un luogo di riposo e risanamento per scimpanzé strappati alla natura o addirittura allevati per essere usati come simil-uomini. Lì ha trovato un posto decente in cui stare anche Chrissy, che adesso ha 18 anni, ma che da piccola era stata portata in Nuova Zelanda per recitare in “Babe 2” dove vestiva i panni di una scimmia incinta. Dopo la performance ha avuto diverse disavventure ed infine è sbarcata proprio qui, nel santuario di “Save the Chimps” di cui pubblichiamo molte immagini in queste pagine. E dove arrivano scimpanzé salvati da zoo lager, da istituti scientifici.E tutto nasce dalla volontà di una donna appassionata: Carole Noon, primatologa, già compagna di Jane Goodall nelle battaglie “pro-chimp”. Se l’è portata via nel 2009 un cancro al pancreas, ma quello che lei ha voluto e costruito qui resta.
La creatura di Carole è il più grande “santuario” per scimpanzé al mondo. Si estende per chilometri tra le back waters alle spalle di Fort Pierce, nella Florida meridionale. Il clima è di certo più umido di quello dell’habitat originale di questi nostri cugini: l’aria è pesante in Florida, leggera nel bush africano. E la luce cambia di molto. Il cielo è lattiginoso sulla costa atlantica a nord di Miami, pieno di acqua e di ogni genere di particelle inquinanti. È accecante e pulito nelle piane attorno alla Rift Valley centrafricana. Ma difficile che Billy, Sarah, Rufus, Christopher o ciascuno degli altri ospiti del santuario possano accorgersene: tra la loro cattura e il momento in cui sono sbarcati a Fort Pierce ne hanno viste di cotte e di crude. Anche nelle mani dei militari.
Perché in principio fu l’Air Force. Che si avvaleva della collaborazione degli scimpanzé nelle missioni spaziali: così simili a noi da essere un modello perfetto per capire cosa sarebbe potuto accadere a un colonnello dell’Iowa sparato lassù. Poi, nel 1997 il Pentagono dice: basta. Basta scimpanzé tra le stelle. Gli animali devono essere “dismessi”. Così, un nutrito gruppo di “astroscimmie” viene spedito nel peggior ghetto possibile, pomposamente chiamato Coulston Foundation: un laboratorio piazzato nel deserto del New Mexico, ad Alamogordo, la città famosa, tanto per rendere l’idea, per essere stata il sito del primo test nucleare pre Hiroshima, Trinity. La sabbia è grigiolina e inquietante come il cubo di cemento dove vennero piazzati gli scimpanzé, considerato il peggiore dei laboratori per primati negli annali dell’Animal Welfare Act, una legge del 1966 che definisce le regole con cui negli Usa si devono trattare gli animali al nostro servizio, anche se poi risulta essere un servizio mortale.
Ma il ghetto di Alamogordo è troppo per l’opinione pubblica americana. E Carole Noon ha buon gioco nel dare vita a una battaglia legale per avere in custodia gli scimpanzé. Spinta dal montante politically correct, specchio di un’anima wilderness molto palpitante negli Usa, e da una madrina inoppugnabile: la stessa Jane Goodal. Mrs Goodall è una specie di Madre Teresa dei primati: bionda, gracile, scontrosa come un riccio ha passato la sua vita nel bacino di Gombe, cinquanta chilometri quadrati di foresta sulla sponda orientale del lago Tanganica. Ci è arrivata a 26 anni nel 1960 spinta laggiù dal guru assoluto della paleoantropologia, quel Louis Leakey che per primo comprese la nostra origine africana e convinse il “National Geographic” a finanziare le ricerche di fossili umani tra il Kenya e la Tanzania (fossili che la moglie Mary, il figlio Richard e la nuora Meave hanno poi realmente trovato). Cinquanta e passa anni fa nessuno aveva idea della assoluta coincidenza dei nostri Dna, ma che gli scimpanzé fossero un buon modello per capire la nostra evoluzione era chiaro già allora. E Leakey mandò la bella Jane in Tanzania per studiarne il comportamento. È a lei che dobbiamo le prime osservazioni e la comprensione di quanto noi siamo loro, e viceversa, anche sul piano delle abitudini alimentari e sociali. Mezzo secolo tra i suoi amici pelosi ha convinto la Goodall che nessuno scimpanzé poteva essere maltrattato. E l’ha spinta a un lavoro di cesello, città per città, nazione per nazione: a spiegare che non possiamo trattare così i nostri cugini.
Il santuario di Fort Pierce è un simbolo di questa consapevolezza. Grazie al lavoro di Carole Noon: dopo una lunga battaglia legale con l’Air Force, il primo ospite è arrivato qui nel 2001. Poi centinaia lo hanno seguito in una sorta di “Grande migrazione degli scimpanzé”. Oggi ce ne sono 255, e la superficie del santuario è aumentata fino a estendersi su 12 isole collegate tra loro. Non sarà bello come spulciarsi al sole del Kenya, ma nessuno di questi ragazzi rimpiange l’habitat naturale. In fondo qui nessuno inocula loro virus mortali, nessuno li spinge in orbita o li fa ballare in una gabbia. Si mangia tutti i giorni e i veterinari lavorano per rimarginare vecchie ferite.