Stimola la creatività. E si può imparare addestrando il cervello. Lo scienziato cognitivo Willibald Ruch spiega cosa c’entrano ?i neuroni con le risate. E perché ci allungano la vita

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L’umorismo? aiuta a mettere in prospettiva la realtà, ci connette con qualcosa di più grande di noi. Stimola la creatività, e fa bene alla salute: parola di Willibald Ruch, psicologo e docente all’università di Zurigo. Che da decenni studia l’umorismo e i suoi effetti, proponendo a manager, medici e studenti corsi che insegnano a cogliere il lato buffo della vita. L’abbiamo incontrato a Bergamo, in occasione delle Giornate nazionali di Psicologia positiva.

Professore, perché ridere ci migliora la vita?
«Oggi sappiamo che il senso dell’umorismo ci aiuta a vivere bene. Ma solo di recente la psicologia positiva ha cominciato a interessarsi di questi temi, a studiare i tratti di personalità che aiutano a vivere meglio, e che la psicologia ha sempre ignorato per concentrarsi sul disagio. Per secoli sono stati i filosofi a occuparsi di umorismo».

I suoi corsi mostrano che si può imparare a prendere la vita con umorismo?
«Possiamo addestrare il nostro cervello a sperimentare la leggerezza: per secoli ci siamo dedicati alla serietà, ora dobbiamo riscoprire la capacità di divertirci. Esistono esercizi per imparare a cogliere il lato buffo delle cose che non ci piacciono. A partire da noi stessi e dal nostro aspetto. Possiamo anche imparare a ridere sotto stress. È difficile ma è molto utile: le emozioni negative restringono la prospettiva, ci fanno vedere solo quello che non va, mentre se si riesce a trovare qualcosa di buffo in una situazione, anche trovare una soluzione diventa più facile».

Cosa s’intende con “senso dell’umorismo”? È possibile definirlo?
«Comico è il termine generico con cui definiamo le varie forme di umorismo: il nonsense, il motto di spirito, il ridicolo, e altro ancora. D’altronde le parole cambiano significato: in origine umorismo era un termine medico, si riferiva agli umori del corpo. Più avanti è stato usato per definire uno stato d’animo. Quando parlo di humor, mi riferisco a un modo di reagire a un’incongruità, a qualcosa che va in modo diverso da come te lo aspetti. Cogliendone gli aspetti buffi, divertenti, anziché quelli negativi».

È quello che lei definisce umorismo sano?
«Sì. Il cinismo e il sarcasmo per esempio non aumentano il benessere, l’umorismo benevolo sì. Imparare a ridere di noi stessi e impegnarsi per far ridere, o almeno sorridere, gli altri, fa bene e ci fa stare bene».

Siamo tutti in grado di divertirci allo stesso modo? Esiste un umorismo universale?
«Qualche differenza culturale c’è: pensiamo che, in cinese, una parola che somigli al nostro concetto di senso dell’umorismo esiste solo da un secolo. In generale, le differenze nazionali sono uno stereotipo che sparisce se si analizzano i singoli, per far emergere le variabili individuali. Un esempio? Il nonsense storicamente è legato alla cultura anglosassone, ma di recente abbiamo testato le reazioni di studenti inglesi e tedeschi a questo tipo di humor. Ed è venuto fuori che ad apprezzarlo di più sono proprio i tedeschi».

Cosa succede nel nostro cervello quando qualcosa ci diverte?
«L’umorismo è una funzione complessa, che coinvolge varie aree cerebrali. Sappiamo che la capacità di fare una battuta è legata alle competenze cognitive, quella di apprezzare il nonsense all’apertura mentale. Mentre la satira è in relazione con il senso di giustizia, il desiderio di migliorare qualcosa criticandola».

È una caratteristica unicamente umana? O anche gli animali possono avere senso dell’umorismo?
«La forma di cui stiamo parlando è strettamente legata al linguaggio, è un modo di giocare con le parole. Però sappiamo che il gorilla Koko, che aveva imparato a comunicare attraverso la lingua dei segni, è capace di fare quelle che potremo definire “battute di spirito” ».

C’è un collegamento tra senso dell’umorismo e intelligenza?
«Non lo sappiamo ancora, anche se è stata scoperta una relazione tra intelligenza e capacità di apprezzare il nonsense. Quello che è stato studiato, invece, è il rapporto tra humor e schieramento politico».

Ossia?
«Sappiamo che chi ha un orientamento politico conservatore preferisce una comicità basata su stereotipi, luoghi comuni: per intendersi, le classiche barzellette sulle suocere. Mentre i progressisti apprezzano il nonsense, un umorismo più ricercato, alla Monty Python, allo stesso modo in cui apprezzano una musica più complessa, o l’arte astratta».

L’umorismo può essere terapeutico?
«I nostri studi lo confermano. Abbiamo visto che persone con una lieve forma depressiva possono essere aiutate semplicemente chiedendo loro di scrivere, alla fine della giornata, tre cose buffe che sono successe. Farlo per una settimana è sufficiente a riportare alla memoria questi momenti piacevoli, e induce anche a vivere in modo più intenso altre emozioni positive. Ma l’umorismo rende anche le persone più creative sul lavoro, aiuta a invecchiare bene, riduce la paura e lo stress prima di un intervento chirurgico. E abbiamo visto che anche pazienti affetti da gravi disturbi respiratori - come la broncopatia ostruttiva - rilassandosi di fronte agli scherzi di un clown, riuscivano a respirare meglio. Per molti di questi malati ridere era troppo difficile. Hanno sorriso, ma l’effetto è stato ugualmente sorprendente».

Avete ottenuto risultati importanti anche con pazienti affetti da demenza.
«In questo caso abbiamo fatto intervenire un clown con formazione medica. L’idea era quella di scherzare anche prendendo spunto dalle difficoltà che questi pazienti incontrano nella vita di ogni giorno. In questo modo, abbiamo visto che persone ormai chiuse in se stesse incominciavano a sorridere, a interagire con il clown e tra loro».

Non sempre però abbiamo voglia di ridere
«Non c’è bisogno di ridere a crepapelle. Anzi, si può ridere senza umorismo, e avere senso dell’umorismo senza essere particolarmente inclini al riso. È sufficiente sorridere: tutti siamo in grado di essere divertenti, solo che di solito abbiamo paura di farlo».