Economia
luglio, 2015

Benedetto sia l’euro, ma ora va cambiato

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Economisti, imprenditori, politici (compreso Umberto Bossi) tutti concordi: lasciare la moneta unica ci riporterebbe indietro e farebbe fallire le banche. Ma una riforma è urgente, perché i “nein” tedeschi finiranno per stroncarla

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Via dall’euro? «Le imprese del Nord ne uscirebbero distrutte». Nei giorni in cui la moneta unica è stata a un passo dallo spezzarsi e la Grecia dall’esserne buttata fuori, Umberto Bossi ha usato parole nette. Se il nuovo segretario della Lega, Matteo Salvini, cavalca la campagna no-euro e lo scontento dei cittadini per la crisi economica, l’anziano Senatur ha detto al “Corriere della Sera” che tornare alla lira sarebbe un disastro: «Poi se la gente va in banca e non trova più i suoi soldi cosa succede?».

Mentre Atene vive la battaglia tra Alexis Tsipras e i contrari all’accordo di Bruxelles per il salvataggio finanziario della Grecia, neppure a Roma si respira un’aria leggera. Il premier Matteo Renzi è stato uno dei primi a capire che la crisi ellenica, con la spaccatura profonda emersa tra i Paesi del Nord, favorevoli alla cacciata della Grecia, e l’asse formato da Francia e Italia per difenderne la permanenza, può rendere più difficile la riforma dell’euro. «L’Europa è una pianta che va annaffiata, altrimenti rischia di morire», ha detto pochi minuti dopo la firma dell’accordo, presentandosi scuro in volto di fronte alle telecamere e mettendo subito nel mirino le cose da fare.

Il motivo contingente della preoccupazione di Renzi è semplice. Per il prossimo anno il premier e il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, dovranno ridiscutere i margini di flessibilità sui conti pubblici che avevano ottenuto per il 2015. Da allora il contesto si è arricchito di nuove difficoltà, anche per effetto delle falle nel bilancio dello Stato aperte dalle sentenze della Corte costituzionale sulle pensioni, gli stipendi pubblici e l’attività dell’Agenzia delle Entrate. C’è il rischio concreto che il governo debba alzare la pressione fiscale per mantenere il deficit in linea con gli obiettivi stabiliti con i partner europei, mentre Renzi e Padoan avrebbero ambizioni di segno diametralmente opposto. Di qui il messaggio inviato a Bruxelles: a settembre l’Italia chiederà più spazi di manovra per poter, ad esempio, concedere agevolazioni fiscali agli investimenti.

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Al di là delle convenienze dei diversi governi, la crisi greca ha consolidato in molti osservatori la percezione dei limiti strutturali dell’euro e della necessità di avviare riforme profonde. La moneta unica rappresenta un progetto ambizioso, quello «di un’Europa che crede nelle proprie possibilità, fiduciosa del suo patrimonio intellettuale, capace di contare negli equilibri internazionali», dice a “l’Espresso” Andrea Terzi, che insegna Economia monetaria all’Università Cattolica di Milano. In concreto, però, i risultati sono stati «deludenti, anzi sconfortanti: dobbiamo ammettere che il mercato interno è asfittico, la diffidenza tra gli europei è cresciuta, l’instabilità del cambio è tornata sotto altre sembianze», osserva Terzi.  

Che l’Unione monetaria non abbia funzionato lo suggerisce il grafico sotto: mentre negli Stati Uniti è ormai rientrato il boom dei disoccupati seguito alla crisi del 2008, nell’Eurozona i senza lavoro restano a livelli record. Ma c’è di più: come mostra il grafico, c’è un nesso diretto fra il deficit pubblico e la disoccupazione: non appena il primo è stato ridotto (in valore assoluto) per le politiche d’austerità, i disoccupati nei Paesi dell’euro sono esplosi.

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La crisi greca ha dato a tutti, favorevoli e contrari alla moneta unica, un segnale forte. «Ci ha fatto toccare con mano qual è il costo dell’uscita dall’euro: il fallimento delle banche. Abbiamo potuto vedere che non esiste una ricetta per uscire in maniera indolore. Se fosse l’Italia a farlo, è molto probabile che anche le sue banche fallirebbero», dice un economista molto stimato come Guido Tabellini. Già rettore dell’Università Bocconi, dove insegna, Tabellini a inizio 2014 era indicato fra i possibili ministri del nascente governo Renzi. Nei giorni scorsi, quando la Grecia sembrava ormai fuori dall’euro, ha scritto sul “Sole” che «di Europa oggi c’è più bisogno che mai», riferendosi alle sfide terribili determinate da catastrofi quali le guerre che infiammano il Mediterraneo o l’esodo di migranti dall’Africa. Per questo colpiscono le sue parole quando gli si chiedono i benefici di essere nella moneta comune: «Per un Paese che ne fa parte, come l’Italia, l’altissimo prezzo che ormai dovrebbe pagare per uscirne. Se nell’euro dovesse ancora entrarvi, dal punto di vista economico non è scontato che starebbe meglio dentro piuttosto che fuori. Anche se l’euro è un progetto politico, e sarebbe sbagliato considerare solo gli aspetti economici».

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80 miliardi l'anno di risparmi
Certamente all’industria benefici la moneta comune ne ha dati. Ana Boata, economista del gruppo assicurativo Euler Hermes, dice che avere condiviso molte normative ha «aumentato il potenziale commerciale dei Paesi europei con il resto del mondo, riducendo le difficoltà di fare business». Le aziende maggiori, osserva ancora Tabellini, hanno avuto la possibilità di indebitarsi a tassi più bassi e di accedere più facilmente al mercato dei capitali, grazie a una moneta riconosciuta in tutto il mondo e meno soggetta alla svalutazione. Allo stesso tempo, però, il sistema economico ha dovuto far fronte ad alcuni svantaggi: quando tira una brutta aria, svalutare la moneta è un modo per recuperare competitività e questo l’Italia non ha più potuto farlo.

Poi c’è la politica monetaria da parte della Banca centrale europea (Bce), che non sempre, spiega il professore della Bocconi, «è stata adeguata al ciclo economico che stava vivendo ogni singolo Paese». Infine c’è il confronto con la Germania: produrre in Italia, a parità di produttività, è diventato più costoso che farlo nel Paese di Angela Merkel; «un tempo a questo inconveniente avremmo reagito svalutando la lira, oggi non possiamo più farlo», dice Tabellini.

Tra gli effetti dell’euro spesso citati c’è la riduzione del costo del debito pubblico in Paesi come l’Italia, dove un tempo il Tesoro riusciva a vendere agli investitori i suoi titoli di Stato solo con tassi d’interesse elevati. Gianluca Garbi, amministratore delegato di Banca Sistema, ha effettuato una simulazione su quanto ha risparmiato l’Italia dal 1995 - quando è iniziata la convergenza fra i tassi italiani e quelli tedeschi - e il 2007, l’ultimo anno prima della crisi finanziaria. Il risultato è stratosferico: rispetto al costo del debito ipotizzabile se ci fosse stata la lira, il risparmio per lo Stato è arrivato a toccare gli 80 miliardi di euro l’anno, per un valore totale nel periodo considerato di 780 miliardi.

«Quegli anni», spiega Garbi, «sono stati un momento di forte riduzione dei tassi a livello globale, Stati Uniti compresi. Ma l’Italia è stata il Paese che in termini relativi ne ha beneficiato di più, proprio perché inizialmente pagava interessi sul debito molto alti». Se il dividendo dell’euro è stato così consistente, almeno per le casse dello Stato, è forte il rammarico per come quei soldi sono stati mal sfruttati: «Piuttosto che tagliare le spese improduttive, abbiamo aumentato il debito, sperperando i risparmi che l’euro ci consentiva», dice il banchiere, che invita a non considerare la moneta unica come la responsabile dell’incapacità politica a sfruttare i benefici avuti in quella fase.

"Rottamiamo il Fiscal Compact"
Ma la crisi che si è aperta negli ultimi anni ha avuto effetti che hanno ampliato le differenze fra i vari membri, invece di colmarle. Quando, a partire dal 2010, i mercati hanno messo nel mirino i titoli del debito pubblico, temendo il fallimento dello Stato italiano o di altri Paesi, dal punto di vista monetario l’Eurozona è andata in pezzi. Per vendere i suoi Btp, il Tesoro doveva pagare agli investitori interessi sempre più alti; la Germania, invece, essendo considerata un porto sicuro, ha visto il costo del debito crollare a zero. «Gli economisti chiamano “sudden stop” la situazione vissuta dall’Italia, quando c’è un improvviso deflusso di capitali stranieri, determinato dal timore di perdere i soldi investiti in un Paese. Ebbene, il costo di queste crisi ha colpito soltanto i Paesi del Sud Europa, e la politica monetaria dell’Eurozona è stata del tutto incapace di porvi rimedio», dice Tabellini.

Quel che serve, ora, sono le riforme. Garbi di Banca Sistema pensa che l’Europa abbia un problema di fondo da risolvere, ovvero il senso di appagamento per il benessere raggiunto che la rende più propensa a vivacchiare rispetto ad altre aree del mondo, come l’Asia o il Sud America. «Se l’Europa non cerca più integrazione al suo interno, i singoli Stati troveranno sempre più difficile competere nel mondo e la decadenza sarà più veloce», dice. Se questo è lo scenario, il senso di sfiducia che colpisce e divide i cittadini europei è però pericoloso. E va cambiato l’assetto istituzionale dell’Eurozona, compreso quello della banca centrale.

«La Bce oggi ha un unico obiettivo - combattere l’inflazione - ormai del tutto anacronistico. Bisogna dare alla politica monetaria dell’Eurozona la possibilità di reagire alla disoccupazione e di favorire la ripresa del ciclo economico; occorre avere più risorse per impedire che i “sudden stop” colpiscano solo alcuni Paesi e per sostenere la domanda aggregata», sostiene il professor Tabellini, che ritiene però molto difficile affrontare una vera rivoluzione in un momento in cui la fiducia tra i diversi Paesi è azzerata. «Temo che saremo costretti a convivere a lungo con queste carenze dell’euro, quindi dobbiamo cominciare a intervenire da soli», dice. Come? Agendo dove si può: controllare maggiormente la spesa pubblica per diminuire il carico fiscale e, insieme, proseguire nella modernizzazione della pubblica amministrazione. E, guardando lontano, «batterci in Europa per rimettere l’euro nella giusta direzione».

Andrea Terzi della Cattolica, autore di “Salviamo l’Europa dall’austerità” (Vita e Pensiero), pensa che andrebbe presa di petto la questione del pareggio di bilancio. «Non possiamo consolarci se grazie all’euro lo Stato spende meno in interessi. Diventa un fattore positivo solo se i quattrini risparmiati tornano sotto altra forma a famiglie e imprese», spiega. Anche l’economista ritiene difficile ottenere più unione politica, una scelta rinviata per almeno un biennio nel piano di riforma preparato dai “cinque presidenti” delle autorità europee (fra gli altri i numeri uno della Commissione e del Consiglio europeo, Jean-Claude Juncker e Donald Tusk), che Terzi definisce un documento «del tutto deludente».

La soluzione, dice, è una: «Dare con urgenza carburante alla domanda, al fatturato, all’occupazione e agli investimenti». Come? Correggendo il “fiscal compact”, il trattato che vincola tutti all’equilibrio di bilancio: «Serve coraggio. Bisogna potenziare di molto e far partire subito il piano Juncker per il rilancio delle infrastrutture, sottrarre la spesa per gli investimenti dai vincoli di bilancio, magari concendendo a Bruxelles più poteri di controllo, e pensare a qualcosa di ancora più innovativo», sostiene. Per esempio? «Si potrebbe immaginare un taglio delle tasse generalizzato, da sottrarre anche in questo caso alle regole del fiscal compact». Troppo coraggio? Terzi invita a guardare gli Stati Uniti. Quando erano in crisi hanno spinto il deficit al 12,6 per cento del Pil e sono ripartiti: «Ora che l’hanno riportato al 3 per cento stanno rallentando. E per l’Eurozona, che sull’esempio tedesco ha puntato tutto sulle esportazioni, rinunciando a rilanciare il mercato interno, non è una buona notizia».

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