Barack Obama, la grande riscossa finale
I successi di fine mandato da Cuba all'Iran
Era considerato un'"anatra zoppa". Oggi il suo consenso è invece in contunua crescita. Dalla politica estera, alla riforma sanitaria, fino alle scelte economiche ecco le mosse che hanno reso di successo il suo mandato
Quando arrivò l’annuncio , alla fine del 2009, la scelta apparve curiosa, forse ispirata da un'eccessiva fiducia nell’uomo, sicuramente favorita da alcuni atti che volevano essere la chiusura con le scelte errate di chi lo aveva preceduto. Lui, che piaceva a tanti e aveva fatto riscoprire in politica la parola speranza, era un giovane afro americano di molti studi e di sicuro talento che solo un anno prima era diventato il 44esimo presidente degli Stati Uniti d’America. Neanche 12 mesi nell’Oval Office ed era stato gratificato del Premio Nobel per la Pace.
Adesso sei anni più tardi, molti di coloro che avevano educatamente espresso dubbi su quella scelta, sostengono che Barack Obama quel premio lo ha meritato. Non fosse altro per l’ultima mossa, perseguire con tenacia, tra lo scetticismo diffuso e le critiche impietose, il colloquio con l’Iran, il Paese degli ayatollah sciiti, della destabilizzazione continua, della affannosa ricerca di possedere la bomba atomica. L’accordo è arrivato dopo mesi e mesi di colloqui segnati da una caparbia scelta ad arrivare in fondo dimostrando così di credere nella possibilità di riprendere a parlarsi dopo 35 anni di guerra fredda condita di insulti, azioni segrete, qualche scontro militare e un massiccio assedio di natura economica: fine delle sanzioni contro la rinuncia per i prossimi 15 anni alla bomba atomica e l’accettazione di un sistema di controlli forse un po’ troppo macchinoso per garantire l’osservanza dell’impegno sottoscritto.
Per Barack Obama lunedì 13 luglio, giorno dell’accordo con chi chiamava l’America il Grande Satana ed era ricambiato con la definizione Asse del Male, è stato un grande giorno: molti sono stati gli applausi, numerosi e durissimi i commenti negativi, a cominciare dal Partito Repubblicano in casa e all’estero dai leader di Israele Benjamin Nethanyau a voce alta e dal re dell’Arabia Saudita Salman in un colloquio telefonico. Il presidente ha sfoggiato ancora una volta il suo pragmatismo, quello che è sempre stato il suo miglior strumento di governo: «Questo non è un accordo basato sulla fiducia reciproca, ma sui controlli».
Al di là della soddisfazione di aver colto un risultato che era al centro della sua agenda politica fin dalla campagna presidenziale del 2008, che aveva ripetuto nel discorso tenuto al Cairo nel 2009 («Parlare con gli avversari è un segno di forza non di debolezza), e perseguito con ostinazione mettendo la sua firma il primo luglio 2010 sul decreto che trasformava l’embargo commerciale del regime di Teheran in una gabbia di acciaio che ha paralizzato il commercio del petrolio e l’attività bancaria e finanziaria con il resto del mondo, l’accordo con l’Iran è la ciliegina sulla torta di una serie di risultati positivi in politica estera come in politica interna che concorrono a colorare positivamente gli ultimi due anni del secondo mandato presidenziale e a lasciare un’eredità positiva del 44esimo presidente.
La difficile eredità di Bush Eppure, questo periodo di fine mandato che gli storici della Casa Bianca considerano quello in cui un presidente si sente - ed effettivamente lo è - più libero di perseguire i traguardi che possono meglio illustrare la sua stagione politica, era cominciato proprio male: a novembre 2014 Obama si era ritrovato appiccicato addosso il cartello di anatra azzoppata perché nelle elezioni di mid term i democratici, il partito del presidente, hanno perso il controllo del Congresso e del Senato, e i repubblicani hanno subito manifestato l’intenzione di cancellare tutte le riforme fatte da Obama nei sei anni precedenti.
Da quel giorno John Boehner e Mitch McConnell, i capi repubblicani alla Camera e al Senato, ripetono come un’ossessione che aboliranno ogni atto con la firma di Obama. Ciò che il partito conservatore ha però perso di vista nell’euforia della riguadagnata maggioranza è che, pian piano ma inesorabilmente, dall’estate del 2013, gli americani considerano positivamente il lavoro del loro presidente tanto che il gradimento ha di nuovo superato il 50 per cento dopo aver toccato il punto più basso a gennaio 2014 con il 39 per cento.
In politica interna il successo numero uno è aver guidato l’America fuori dalla peggiore crisi economica dopo quella del 1929. Ma non è il solo traguardo positivo perché a seguire ci sono la riforma sanitaria, il raddoppio della produzione di energia rinnovabile, la fine della dipendenza dall’estero per il petrolio, la libertà di matrimonio per gli omosessuali (su questo tema è stato il vice presidente Joe Biden a premere con decisione e Obama ha riconosciuto di aver cambiato idea strada facendo).
In politica estera, in un mondo peggiorato dai disastri lasciati dalla precedente amministrazione in Iraq, il Paese che ha poi fatto da incubatrice a molte altre crisi a cominciare dal corto circuito irreversibile tra musulmani sunniti e sciiti, Obama oggi segna nel suo carnet due punti a favore: prima il dialogo con Cuba, chiudendo così oltre 50 anni di Guerra Fredda, e adesso con l’Iran con tutto quello che questo potrebbe produrre a cascata se il patto sarà rispettato da entrambi i firmatari.
Obama sa perfettamente che la favorevole situazione interna è quella che gli ha permesso di muoversi più liberamente sulla scena internazionale. Se non ci fossero stati i numeri positivi che contraddistinguono oggi gli Stati Uniti né il disgelo con Cuba, né tantomeno quello con l’Iran sarebbero stati a portata di mano. Obama lo ha ricordato con orgoglio solo pochi mesi fa parlando a Cleveland, Ohio: «Dopo 12 milioni di nuovi posti di lavoro, la Borsa che ha raddoppiato il suo valore, il deficit tagliato di due terzi, l’inflazione nel settore sanitario al più basso livello degli ultimi 50 anni, la rinascita del settore manifatturiero, dell’industria dell’automobile, il raddoppio della produzione di energia pulita, questa è la risposta a tutte le teorie economiche alternative proposte dall’altra parte».
Se avesse ascoltato i consigli che venivano dai repubblicani che gli avevano lasciato una disoccupazione al 9,3 per cento (oggi è al 5,2), la Borsa ai minimi storici, le banche sull’orlo del fallimento, Obama avrebbe dovuto evitare lo stimolo finanziario, ovvero miliardi di dollari federali messi in circolo per dare ossigeno a un Paese collassato, tagliare la spesa sociale e gli investimenti e lasciar fallire General Motors, Ford e Chrysler, oltre naturalmente abbassare le tasse ai più ricchi che è il mantra irrinunciabile del Partito Repubblicano: tutto ciò avrebbe messo in moto le forze nascoste del mercato che avrebbero creato nuovi equilibri e prosperità.
Il presidente e il suo governo hanno scelto la strada di guidare passo dopo passo la ripresa. E hanno avuto ragione, visto che le ricette liberiste e di austerità amate dai conservatori americani e che sono tanto piaciute in Europa mostrano oggi nitidamente che cosa ha funzionato e che cosa no, chi ha ripreso il cammino delle sviluppo e chi è ancora impantanato nelle sabbie mobili della stagnazione o della crescita a zero virgola qualcosa.
Questo significa che gli americani sono oggi felici e che tutto va bene? O che il loro presidente non ha commesso errori nei suoi primi sei anni alla Casa Bianca? Problemi ce ne sono e tanti, per cominciare dalla questione razziale che è fatta di redditi inferiori e disoccupazione più alta per afro americani e latinos, o dai 20 milioni di illegali che però lavorano e pagano le tasse negli Usa o da un sistema penale che fa acqua da tutte le parti e per finire alla difficile battaglia solo in parte vinta di convincere le autorità statali ad aumentare la paga oraria minima.
Ma il presidente ha segnato comunque la sua presidenza con alcune scelte che hanno in parte cambiato la vita degli americani. La riforma sanitaria, l’obbligo di essere assicurati, per esempio, è stata osteggiata in modo quasi ridicolo dai conservatori repubblicani che ancora oggi sognano di cancellarla con un voto del Congresso, nonostante la Corte Suprema abbia già due volte emesso sentenze che mettono l’Obamacare nel solco della Costituzione scritta dai padri fondatori. E sempre i nove giudici hanno messo fine alla guerriglia che i repubblicani combattevano ovunque era possibile vietando il matrimonio tra persone dello stesso sesso, un dato che tocca sicuramente sensibilità diverse tra loro ma è ormai accettato dalla maggioranza degli americani senza isterie ideologiche.
Prossima sfida, il commercio Barack Obama sta cercando dal primo giorno (e non sempre ci è riuscito) di rimettere il suo Paese al centro dell’attenzione mondiale. Per questo ha insistito perché andassero comunque avanti le trattative sul nuovo commercio mondiale: se quello con l’Unione Europea è ancora in alto mare, quello del Pacifico è già sulla strada dell’approvazione parlamentare nonostante molte riserve nel partito del presidente sui rischi di regalare posti di lavoro negli Usa aprendosi ancora di più ai Paesi asiatici.
Nel segreto totale ha portato avanti la trattativa con Cuba, l’isola caraibica a meno di 100 chilometri dalle coste della Florida con la quale c’era un muro dai primi anni Sessanta. Ora la strada del dialogo è riaperta, ai primi di luglio è stata annunciata la ripresa di regolari relazioni diplomatiche con lo scambio degli ambasciatori (i repubblicani aspettano al varco il presidente in Congresso, l’unico che potrà cancellare le sanzioni economiche). Non basta questo certo a segnare un corso nuovo, ma è il passo essenziale perché Cuba non continui ad essere chiusa nel suo dogmatismo fatto di una casta di pochi al potere e di repressione del dissenso.
Con l’Iran Barack Obama ha poi messo sul tavolo la possibile risoluzione di molti dei problemi del Medio Oriente. Se Teheran ritorna nel gioco delle relazioni diplomatiche dovrà dare una mano per risolvere la questione della sicurezza nell’area, non potrà continuare a sostenere in modo sfacciato un regime come quello del siriano Bashar Assad, non potrà continuare a sostenere le guerre di altri per averne indirettamente vantaggi sui vari scenari aperti nella regione. Ma l’accordo, oltre a rimettere in gioco l’Iran, riattiva il dialogo tra Washington e Mosca, visto che la Russia è stata determinante per la firma, dopo il gelo seguito agli eventi della Crimea e dell’Ucraina e della reazione occidentale attraverso sanzioni economiche. Anche a Mosca hanno capito che l’instabilità dell’area prima o poi potrà creare problemi dentro la stessa Russia e si sono mossi perché questo non accada.
Barack Obama sa che tutto questo non significa la fine dei problemi, ma ripete che questa strada apre scenari sicuramente più positivi di quelli attuali. In fondo, ha messo in pratica l’esortazione di Martin Luther King: «La violenza non porta alla pace permanente. Non risolve i problemi sociali, anzi ne crea solo di nuovi e più complicati».