Uno squarcio nel mare verde dell'Amazzonia. Acqua, fango, chilometri e chilometri di foresta distrutta, bruciata. Fiumi avvelenati. Donne e bambini sfruttati da un esercito di imprenditori fuorilegge. Ecco l'inferno delle miniere illegali di Madre de Dios, in Perù. Partono da qui ogni anno decine di tonnellate di oro destinate all'Europa e agli Stati Uniti, dove finiscono nei caveau delle banche sotto forma di lingotti oppure nelle vetrine delle vie dello shopping, trasformate in gioielli. L'Espresso, in un'inchiesta pubblicata nel numero in edicola da venerdì 31 luglio, ricostruisce questo business miliardario. E' il business dell'oro sporco, illegale, frutto della devastazione ambientale e dello sfruttamento.
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Un muro di corruzione e omertà protegge affari colossali. Le miniere di Madre de Dios sono al servizio delle multinazionali del trading. Sono questi i burattinai del commercio globale. Aziende svizzere, statunitensi, degli Emirati Arabi. I loro clienti sono le grandi marche internazionali della gioielleria oppure banche e investitori privati che acquistano lingotti.
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Il Perù, con oltre 160 tonnellate annue, è il quinto produttore mondiale di oro. E le miniere illegali valgono almeno un quinto del totale. Significa che, a partire dal 2010, da Lima hanno preso il volo verso gli Stati Uniti, l'Europa e i Paesi arabi quasi 150 tonnellate di metallo fuorilegge, circa 30 tonnellate ogni dodici mesi. Un tesoro immenso: ai prezzi di questi giorni il valore di mercato di quelle 30 tonnellate sfiora il miliardo di euro.
La caccia alle pepite coinvolge intere comunità, come racconta il video-reportage diffuso pochi giorni fa sul web dalla rivista peruviana “Ojo Publico”. Una massa di contadini diseredati fornisce forza lavoro a costi irrisori per gli imprenditori. Poche aziende locali tengono in pugno il mercato peruviano. Si riforniscono dalle miniere illegali e poi rivendono la materia prima all'estero, ai grandi intermediari internazionali.
Una lunga scia di affari sporchi alimenta i profitti degli imprenditori più spregiudicati, quelli che comprano il metallo giallo a prezzi stracciati nei territori dove regna l'illegalità. Sui loro traffici si allunga anche l'ombra del riciclaggio di denaro. Il Perù è il più grande produttore ed esportatore mondiale di cocaina. E i clan di narcotrafficanti, come hanno dimostrato alcune recenti indagini, investono parte dei loro guadagni nel business delle miniere illegali.
Nonostante le buone intenzioni sbandierate in ogni occasione, per anni il governo di Lima si è limitato all'ordinaria amministrazione, evitando con cura di tagliare la strada ai boss dell'oro sporco. Solo di recente magistratura e polizia hanno raggiunto qualche risultato concreto. Nel dicembre del 2013 quasi mezza tonnellata di oro proveniente dalle miniere illegali è stato sequestrato nel porto di Callao, il più grande del Paese andino. Il metallo prezioso era destinato a multinazionali come l'americana Northern Texas Refinery, la Republic Metals Corp., pure statunitense, e la Kaloti group di Dubai.
Nella lista dei destinatari, per un piccolo quantitativo, solo 18 chili, c'era anche un'azienda italiana, la Italpreziosi di Arezzo, che spiega: «Era un problema del nostro fornitore, con cui abbiano subito interrotto i rapporti».
L'inchiesta integrale sull'Espresso in edicola venerdì 31 luglio e online su E+