La sede diplomatica torna in funzione dopo lo storico annuncio di Obama e Raul Castro. E le nuove aperture sul fronte economico spingono il turismo e creano nuove speranze per i cubani. In attesa dell'arrivo di Papa Francesco

Visitando l’ufficio d’interessi americano sul lungomare di l’Avana, Cuba, non si direbbe che da oggi si trasformerà in ambasciata. A pochi metri dall’ingresso il governo cubano ha fatto sistemare la bellezza di 138 bandiere nazionali che ne occultano la facciata, con la gigantesca scritta Castrista: “patria o muerte, venceremos”.

“Non si tratta di una provocazione”, spiega Pedro, che lavora per l’agglomerato statale che gestisce turismo e patrimonio culturale. “Fu Bush figlio ad esporre uno schermo luminoso che proiettava notizie tendenziose riguardo il regime di Fidel e i suoi rapporti con gli Stati Uniti. Da allora il governo gli ha piazzato davanti la sbandierata per oscurarlo”. Chissà se con il riavvicinamento fra Obama e Raul, iniziato con la storica stretta di mano al funerale di Nelson Mandela, verranno rimosse le bandiere simbolo di una disfida quotidiana.
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Se lo augura Julio, che indossa una coraggiosa maglietta “hope” con il faccione di Obama, e probabilmente molti dei suoi concittadini che ogni giorno transitano sul Malecon con le loro automobili americane anni ’40 e ’50. Sono le stesse dall’inizio del bloqueo, l’embargo economico post-rivoluzionario, a parte che oggi vederle partire sembra sempre un miracolo.

La data della riapertura dell’ambasciata è fissata per il 14 agosto, rinviata di un giorno perché il 13 è l’ottantanovesimo compleanno di Fidel. Pareva troppo beffardo ai funzionari di l’Habana farla coincidere con i festeggiamenti per il leader maximo, che secondo la vulgata nazionale sarebbe stato oggetto di ben 634 tentativi statunitensi di eliminarlo.
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Uno dei più insoliti lo racconta Pedro Juan Gutiérrez nella “Trilogia Sporca dell’Avana”: un agente CIA in incognito lo avvicina e riesce a diventare suo amico facendo leva sulla passione comune per la pesca subacquea. La muta di neoprene impregnata di una sostanza velenosa che gli regala lo porterà dritto in cella insieme a tutti gli altri “gusanos”, i controrivoluzionari che in quel fatidico 1959 affollavano le carceri cubane.

Aneddotica a parte, le ingerenze a stelle e strisce in America latina sono da sempre nemico giurato dell’internazionalismo rivoluzionario di Castro, che non a caso ha fatto chiamare “piazza anti-imperialista” lo slargo dove sorge quell’ufficio di interessi che diviene ora ambasciata americana. Culmine del confronto fu la celebre invasione della Baia dei Porci, l’incerto tentativo di Kennedy di rovesciare il regime comunista due anni dopo la rivoluzione. Millequattrocento esuli cubani utilizzati dai servizi segreti americani nell’attacco rimasero prigionieri a Cuba dopo il fallimento dell’operazione, che sancì l’aurea d’invincibilità del regime dei Castro.
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Sarà perché il timone è passato nelle mani del meno anti-americano Raul, sarà perché un presidente come Obama sul finire del suo mandato rappresenta un’occasione unica, o più concretamente perché il sostegno petrolifero venezuelano rischia di scemare con la caduta del prezzo del petrolio facendo balenare lo spettro di un nuovo “periodo especial”, gli anni di profonda crisi economica seguiti alla caduta dell’Urss. Fatto sta che dopo decenni di tentati contatti e riavvicinamenti, sempre arenatisi fra diffidenze reciproche, Cuba e Stati Uniti paiono muoversi con serietà verso la normalizzazione delle relazioni.

Lo testimonia non soltanto la decisione di riavviare i contatti diplomatici presa il 20 luglio scorso, ma anche il lento processo di liberalizzazione e apertura all’economia globalizzata che muove inesorabile i suoi passi. “La nostra compagnia statale una volta era egemone in fatto di servizi turistici, dalla gestione di ristoranti e alberghi fino alle catene di produzione per i rifornimenti”, spiega di nuovo Pedro, “ma dal 2011 i nuovi permessi per esercizi privati hanno cominciato a mettere le nostre strutture meno efficienti in grave difficoltà, e le multinazionali cominciano a fare capolino”.

Raquel Mena, un’abitante del quartiere Vedado, è stata una delle prime a richiedere il permesso al governo per affittare ai turisti le camere della sua abitazione sul Malecon. “Ormai il fenomeno delle casas particulares riguarda centinaia di migliaia di cubani in tutta l’isola”, dice, “il Glasnost di Raul è stato un sollievo per tutti, anche se il processo per ottenere l’ok governativo rimane una tipica battaglia burocratica cubana”. La figlia Georgina, che gestisce con entusiasmo il piccolo business privato di famiglia, si inserisce allungando il biglietto da visita per le abitazioni: “tieni conto che l’80 per cento di noi cubani ha parenti negli Stati Uniti, soltanto a Miami c’è quasi un milione di nostri connazionali”, dice, “ovvio che la pace renderebbe la vita più facile a tutti, senza nulla togliere alla rivoluzione e ai suoi successi in campi come sanità e alfabetizzazione”.
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Da luglio Georgina può avvalersi dell’accesso a internet per accordarsi con i clienti stranieri, una vera rivoluzione per lei e per tutti i cubani che affollano le sedi dell’“Empresa de Telecomunicaciones de Cuba” per aggiudicarsi una delle preziosissime “tarjetas de navegaciòn”. “Prima la connessione era concepita solo per usi istituzionali, come nelle scuole o negli ospedali”, raccontano dalle lunghe file sotto il sole, “ora l’accesso è permesso anche ai privati anche se in molti del locali autorizzati i wi-fi sono lenti e spesso inspiegabilmente fuori servizio”.

Nonostante i difetti e le asperità, i bar forniti di connessione come il “Caffè Ciudad” di Camaguey sono gremiti di cubani, così come le halls degli alberghi sono gremite di occidentali che litigano smart-phones alla mano con le complessità dei codici per il wi-fi. “Juventud rebelde”, uno dei quotidiani nazionali insieme a “Granma” e “Trabajatores”, dedica un’intera pagina alla liberalizzazione del web, con le immagini dei cubani che cominciano a sviluppare la dipendenza da laptop, tablet e “telefonos inteligentes” a noi fin troppo nota.

Mentre Cuba si apre al mondo, il mondo viene a Cuba, forse per vederla prima che cominci ad assomigliare troppo ad un “non-luogo” di catene globali e prodotti già visti a casa propria. Secondo l’istituto Nazionale di Statistiche e Informazione cubano (ONEI) il turismo sarebbe in crescita del 16 per cento rispetto all’anno scorso. Dato ancor più rilevante, riportato invece dal “Granma”, fra gennaio e luglio le visite di turisti americani sono salite del 54 per cento. “Secondo i miei calcoli il 2015 potrebbe chiudersi con più di 3 milioni e mezzo di turisti internazionali”, dice l’economista José Luis Perellò, “di cui quasi 150.000 di nazione americana”.

Un’ondata particolarmente significativa è prevista per il mese di settembre, quando a Cuba arriverà anche Papa Francesco. La costruzione del palco per la messa è in corso nella “piazza della rivoluzione” di l’Avana, sotto le gigantesche effigi degli eroi rivoluzionari Che Guevara e Camillo Cianfuegos. Qui, nel 1998, Wojty?a era riuscito a radunare un milione di persone in un paese che ne conta poco più di dieci. Bergoglio ha buone chances di non essere da meno, in particolare dopo aver rivestito un ruolo decisivo nelle trattative fra Raul Castro e Obama.

Chissà se, dopo aver attraversato le strade di Avana dove non esistono cartelloni pubblicitari ma solo poster di propaganda di un governo che non ha mai ostacolato l’osservanza del cristianesimo se non nella misura in cui lo identificava con l’ancien regime, Francesco riuscirà a deporre un’altra pietra miliare nella direzione della normalizzazione. Gli ostacoli rimangono significativi, e le promesse fatte da Raul in occasione dei 500 anni di Santiago (fine immediata dell’embargo e restituzione di Guantanamo) sono premature. Bisogna ancora fare i conti con questioni come i miliardi di dollari di proprietà confiscate a cittadini americani dopo la rivoluzione, o come lo spettro di una vittoria repubblicana nelle presidenziali americane nel 2016. Ma ci sono segnali incoraggianti.

Secondo Carlo Feltrinelli, amministratore della casa editrice che per prima pubblicò i diari del Che in Bolivia e trattò a lungo la pubblicazione delle memorie di Fidel Castro a tu per tu con lui, il ventesimo secolo si esaurirà solo con la morte del leader maximo. “Conosco bene la tesi del secolo breve di Hobsbawn”, spiega, “ma per me il 900 finirà nel giorno dei suoi funerali, a cui non potrò mancare”. Vuoi vedere che Papa Francesco, mettendo fine al decennale conflitto fra gli Stati Uniti e Cuba, riuscirà a chiudere il secolo dello scontro di ideologie ancor prima della morte di Fidel?