Intervista-bilancio con il grande regista. Che, alla vigilia degli 80 anni, parla di cinema, amore, vita e morte, caso, destino, New York e Obama
Correva la turbolenta estate del 1969 quando uno sceneggiatore che si era fatto notare nei cabaret del Greenwich Village giocando sulla sua figura di ebreo newyorchese - goffo, nevrotico e un po’ paranoico - esordì col primo film nella triplice veste di regista, autore e protagonista. Il suo nome era Woody Allen. Quello del film, che i produttori valutarono seriamente di non distribuire, era “Prendi i soldi e scappa”. Non faceva ridere, non reggeva, pensarono.
Sono passati 46 anni da allora. Allen nel frattempo ha scritto e diretto altri 45 film, perché anche adesso, che sta per compierne 80, non ha smesso di girarne uno all’anno. Continua a farci ridere ma anche a pensare e riflettere, parlandoci della difficoltà delle relazioni, d’amore e non solo. Esplorando sentimenti come gelosia, potere, invidia, cupidigia, senso di colpa, timidezza, moralità. La condizione umana in immagini, insomma. Con in più lo spettacolo della sua vita personale, che ha avuto il momento più surreale quando - era il 1992 - decise di lasciare Mia Farrow, compagna e musa per 12 anni, per Soon Yi, loro figlia adottiva, di 35 anni più giovane di lui. Il tutto mentre stava uscendo il film “Mariti e mogli”, che aveva come soggetto l’impossibilità dell’amore.
[[ge:rep-locali:espresso:285592981]] In questi giorni Allen sta per iniziare le riprese del suo nuovo film per il 2016 (il nome non è ancora noto), che avrà tra i protagonisti Jesse Eisenberg, Blake Lively, Parker Posey, Kristen Stewart e Bruce Willis. È anche impegnato a terminare una miniserie per Amazon TV. Con la moglie e le figlie che se ne sono andate a vedere una replica, a Broadway, di “Un Americano a Parigi”, Woody pensava che questo sabato pomeriggio sarebbe stato perfetto per starsene solo in casa a dare gli ultimi ritocchi alla serie. Una telefonata della sua pierre gli ricorda invece che il piano salta, perché ha accettato quest’intervista legata all’uscita americana di “Irrational Man”, storia di un professore universitario (Joaquin Phoenix) introverso e depresso. Che trova una sua catarsi uccidendo un giudice immorale.
Avrebbe sicuramente preferito la solitudine della sua casa nell’Upper East Side all’incontro con un giornalista al London Hotel sulla 54ma, ma non lo dà a vedere. È spiritoso, oggi. Loquace, autoironico, informato, modesto, curioso, tagliente, un uomo impermeabile ai tempi. E al tempo: il termometro segna 29 gradi, c’è molta umidità, ma lui indossa spessi pantaloni khaki sgualciti dalla vita molto alta, una camicia gialla che lascia intravvedere una canottiera bianca, grossi occhiali totalmente démodé. In mano stringe un improbabile cappello di tweed marroncino. Fa venire caldo solo a guardarlo. Ma per chi lo ha seguito, ammirandolo e criticandolo per quasi mezzo secolo, è il grande inimitabile Woody.
Woody Allen, lei scrive e dirige film da 46 anni. Quanto si sente cambiato dai giorni del suo esordio? «Sul set, io sono più o meno lo stesso, la stessa personalità quieta e poco interessante. Ma nel frattempo tutto è cambiato. Ci sono di mezzo 45 film, e anche lo studente più stupido a un certo punto assorbe un minimo di tecnica ed esperienza. Dunque sono un filmmaker migliore di allora. Non uno bravo, ma migliore dei giorni di “Prendi i soldi e scappa”. Allora non avevo fatto niente di simile, era tutto completamente improvvisato per me, facevo quello che mi sembrava fosse divertente. Oggi, se si osserva il tono dei miei film più recenti, la loro struttura narrativa, la loro tecnica teatrale, sono molto diversi. Film come “Magic in the Moonlight” o “Midnight in Paris” e “Match Point”, e ora “Irrational Man”, sono molto diversi, tecnicamente più sofisticati. Niente di cui essere particolarmente orgogliosi, è successo a forza di fare film. Ma ho accumulato più esperienze di vita e penso che i miei film siano diventati più profondi di quelli girati quando semplicemente andavo avanti di battuta in battuta, cercando di far ridere il pubblico. Faccio film sull’esperienza umana e - anche se molti avranno da ridire su questo - penso di essere migliorato. Amo ancora provocare una risata, ma non dipendo più solo da quello».
È diventato più cinico? «Io sono sempre stato accusato di cinismo, che poi è un altro modo per rappresentare la verità. In “Irrational man” il protagonista uccide, ma questo non gli procura né ansia né insicurezza. Anzi, Joaquin Phoenix si sente euforico, rinvigorito dall’assassinio. Pensa di avere commesso un atto socialmente positivo: finalmente vive una vita che vale la pena di vivere. Anche in “Match Point” il protagonista uccide e l’assassinio sì, gli pesa sulla coscienza, però la fa franca. In “Midnight in Paris” Owen Wilson arriva alla conclusione che - in qualunque era e in qualunque posto si viva - ci saranno sempre un’era e un posto migliori perché, come dice esplicitamente nel film, la vita è una cosa insoddisfacente. Io, del resto, non ho fatto che raccontare il lato negativo della vita durante tutta la mia carriera. Penso che la vita sia un’esperienza molto tragica. Se c’è una cosa comune a tutti i miei film, almeno dai tempi di “Annie e io”, è che i miei personaggi hanno sempre espresso questo concetto con coerenza. Freud e Nietzsche hanno parlato del pessimismo in modo molto più profondo ed eloquente di me, ma io sono sempre stato pessimista e cinico».
I suoi film sono anche slegati dalla realtà quotidiana. «Vero. Io mi sono sempre opposto alla realtà: viviamo un’esistenza molto crudele e se c’è un’opportunità per sfuggirla io la prendo al volo. Il problema è che è molto difficile riuscire a ignorare la realtà».
Anche perché viviamo tempi di grandi, complesse trasformazioni. L’avanzata dello Stato islamico. L’apertura a Cuba e all’Iran. Le tensioni razziali. Le elezioni americane dell’anno prossimo. Che cosa la appassiona o almeno interessa? «Come cittadino, mi interessa quello che fa il mio governo e quello che fa Obama, un presidente che ha fatto molte cose buone, ma non ha saputo vendersi bene. Mi interessa la crescente disuguaglianza tra quelli che hanno e quelli che non hanno. Tutte le questioni che stanno a cuore ai democratici e ai liberal come me. Mi interessa il matrimonio gay, la libertà di scelta per le donne, la trattativa sul nucleare iraniano, però come artista tutte queste questioni sociali e politiche non mi interessano. Come artista la mia attenzione è sempre andata alle relazioni umane, a temi filosofici e psicologici. Perché nel cinema puoi affrontare le situazioni problematiche e apparentemente insolubili del momento e tutti ti diranno: “Mio Dio, questo è davvero importante, andrò sicuramente a vedere il tuo film”. Poi però il tempo passa e i bianchi e i neri che prima andavano in scuole separate si integrano; i gay che pochi anni fa erano impegnati in una battaglia drammatica adesso possono sposarsi liberamente o quasi. E così quel tuo film non interessa più a nessuno, diventa roba vecchia. Allora preferisco fare film su temi che restano, e lasciare le questioni sociali per la mia vita personale».
Il destino è un tema che ricorre spesso nei suoi film. Come la pallina da tennis di “Match Point” che tocca la rete e poi, superandola o rimbalzando indietro, cambia delle vite. «Le nostre vite sono piene di momenti casuali, che non controlliamo affatto ma finiscono per premiarci o punirci in forme spropositate. Cammini da una parte della strada e tutto va bene, scegli l’altro lato e un pianoforte ti cade in testa. E tutto cambia. Ci sono tutti questi momenti, queste coincidenze che ci cambiano la vita. Uno in particolare per me? Faccio una festa di Capodanno, pochi giorni dopo ricevo una nota di ringraziamento da Mia Farrow con un libro, la chiamo per ringraziare a mia volta, le propongo di incontrarci a colazione la settimana successiva. E così, da una catena di eventi apparentemente casuali, è nata un’industria mondiale!».
Negli ultimi anni lei ha girato a Londra, Barcellona, Parigi, Roma, San Francisco. E la sua New York? Non la filma più? Se tornasse a girarci domani, come la dipingerebbe rispetto ai tempi di “Manhattan”? «A New York lavorerei volentieri, ma d’estate fa troppo caldo, e poi girarci film è diventato tremendamente costoso. Nel frattempo ho avuto l’opportunità di lavorare in metropoli molto belle e interessanti dove ho trovato gente che mi ha finanziato i film stando alle mie regole. Che sono queste: non possono interferire in alcun modo, non possono nemmeno leggere la sceneggiatura e devono fidarsi che non farò una cosa imbarazzante. Ho girato anche da voi, a Roma. Ma - anche se ci sono stato varie volte - la mia conoscenza dell’Italia viene da Rossellini, Fellini, De Sica, Antonioni e Monicelli, da tutti quegli incredibili film con i quali sono cresciuto. Penso a lavori come “Roma città aperta”, “Ladri di biciclette”, “Sciuscià”. La mia è sempre stata una Roma in bianco e nero. In “To Rome with love” ci ho aggiunto gli occhiali rosa, da turista americano».
E New York, come sarà quando tornerà a girarci? «Non sarà una New York molto diversa da quella di tanti miei film perché la mia non è mai stata la vera New York, quella che vedi invece nei film di Martin Scorsese o Spike Lee. La New York City piena di glamour dei miei film viene dall’idea di Hollywood di quello che erano Broadway e New York. Comunque, alla fine, questa città è sempre la stessa. Ricordo che dopo l’11 settembre tutti si domandavano se sarebbe mai tornata a essere quella di prima. Pensavano di no, invece continuiamo a camminare per le strade e ad andare al Madison Square Garden, a teatro, nei ristoranti. È ancora un posto molto romantico e molto creativo, dove ci sono grandi energie, entusiasmo e creatività. Una cosa però è davvero cambiata: non c’è più la classe media. A New York adesso ci sono solo i ricchi e quelli che faticano ad andare avanti. Triste. Sarà bello se sapremo evitare che questa città diventi da un lato quella della gente con un sacco di soldi, dall’altro di quelli che non possono permettersi di vivere decentemente».
Allen, molto del potere economico oggi è in Cina. E lei ha una moglie coreana. Mai avuta la tentazione di lavorare in Asia? «Tutti mi dicono che devo andare in Cina e che devo andare a Seul. Mia moglie Soon-Yi tiene moltissimo a portarmici, appena può mi ricorda che a dicembre avrò 80 anni e che presto sarò morto, quindi temo che prima o poi mi toccherà andarci davvero. Ma per ora la tiro per le lunghe. E se alla fine mi andrà bene, sarò morto prima per davvero!».
Già, Mr. Allen: quasi 80 anni. Pensa molto alla morte? «Ma sì che ci penso. Penso che sono contrario. Per quanto analizzi il problema, non riesco a vederci dei vantaggi. Anzi, sono ossessionato dalla morte da quando avevo 5 anni. Ho sempre vissuto come se fosse alle porte, dunque la mia prospettiva non è molto cambiata. Il compleanno? No, a quello non ci penso proprio, perché trovo triste quando la gente si ritrova e si mette a bere e a festeggiare, “Oh, adesso hai compiuto i 70. Oh, e ora gli 80!”. Lo trovo un inutile esercizio di insincerità».
Alla sua età, cosa pensa del cinema di oggi? «Già quando ho iniziato io il cinema era in mano ai filistei, però gli studios, per salvarsi la coscienza, un paio di volte l’anno ci tenevano a fare dei film di qualità. Ora i buoni film non interessano più: preferiscono fare brutti film che incassano invece che bei film che perdono. E si può capirlo, sono uomini d’affari. Il fatto, però, è che molti dei registi emersi negli anni ’70 non potrebbero più farlo, nel contesto economico e finanziario di oggi. E c’è anche la questione dei piccoli schermi che diventano sempre più grandi, della definizione dell’immagine che sarà sempre migliore... il risultato è che la gente si guarderà i film a casa, senza più bisogno di uscire. Vuoi l’ultimo film di Angelina Jolie alle 8 e mezza? Chiami e alle otto e mezza il film arriva. Ma sarà un’esperienza molto diversa da quella di quando ero ragazzino io, e ti alzavi la mattina e non stavi più nella pelle perché sapevi che più tardi saresti andato al cinema. Le sale erano grandi e bellissime, la gente aspettava in coda sotto la pioggia e l’intera esperienza aveva qualcosa di magico. Ora è un’altra cosa. Parlo con gli studenti di cinema e mi dicono, «Sì, certo, “Lawrence d’Arabia”, l’ho visto. “Quarto Potere”? Anche». Poi scopro che li hanno visti sull’iPhone. Per uno come me è scoraggiante. Terribile».
Però anche lei si è fatto tentare dalla televisione. Ha firmato per fare una serie con Amazon TV. «Un po’ di anni fa mi chiamano da Amazon e mi chiedono se voglio fare una miniserie per loro, sei episodi di mezz’ora. Rispondo che io non guardo queste cose e che non ho tempo. Ma loro richiamano e richiamano, e ogni volta mi offrono più soldi. Mi dicono che posso fare quello che voglio: girare in bianco e nero; se mi va, in Europa. Continuano a chiamare e ad alzare la posta. Alla fine è diventato troppo bello per poter dire di no, anche perché mi sono detto: Che cosa saranno mai 6 mezz’ore per un genio come me? Invece ci ho sofferto moltissimo e ho finito per lavorarci un sacco. Se Dio vuole, ho quasi finito e la serie andrà in onda l’anno prossimo. Qualcuno dirà che avrei fatto meglio a continuare col cinema, altri che avrei fatto meglio a non fare proprio nulla, ma io ce l’ho messa tutta. Solo, ho sottovalutato la difficoltà di un progetto come questo».
Lei ha fatto regie cinematografiche e televisive, ha fatto teatro, persino un’opera. È scrittore, sceneggiatore, clarinettista. C’è qualcosa che avrebbe voluto fare e non ha fatto? «Prima di morire? No, niente di particolare. Sono in buona salute, faccio ginnastica, mangio bene. Certo, magari domattina mi viene un colpo e non mi ricordo più nemmeno come mi chiamo. Ma se la salute tiene e continuo a trovare gente che - non si capisce bene perché - insiste a mettere soldi nei miei film, io continuerò a lavorare. Entrambi i miei genitori sono vissuti a lungo: mio padre è morto a 100 anni, la mamma a 96. Se i geni non tradiscono, anch’io avrò una lunga vita: spero di continuare a fare film, forse anche di migliorarmi. Non vedo ragioni per non farlo. Ho sempre milioni di idee, mi piace scrivere. E poi, non saprei proprio cos’altro fare».