Sono quasi tutti immigrati dall’Asia. E coi nostri colori hanno vinto gli europei. Anche se alcuni non hanno ancora la cittadinanza. La serie A conta sette squadre. Ecco come cresce una disciplina da noi semisconosciuta
Come ogni benedetta domenica, Dinidu Marage sale sul pulmino con i compagni di squadra e si attacca subito al telefono. Parla con la moglie e la figlia che sono a Colombo, in Sri Lanka, mentre lui, 34 anni, è emigrato qui nel 2007 e oggi fa le pulizie in un albergone romano, oltre ad essere, sì, una delle colonne della nazionale italiana di cricket. Ore 9 di mattina, appuntamento a Roma, al Corviale. Nel famigerato “serpentone” sulla Portuense vivono otto giocatori della Roma Cricket Club, una delle 7 squadre della serie A italiana. Come quasi tutti i giocatori del nostro campionato, non sono italiani. Loro per esempio vengono dallo Sri Lanka, Paese in cui questo è sport nazionale, e di mestiere fanno i camerieri, i facchini o i lavapiatti.
La Roma Cricket Club è nata nel 2012 da un’idea di Prabath Ekneligoda, che non è solo alla guida della squadra come manager-capitano-allenatore, ma è anche alla guida del pulmino con cui oggi ci conduce tutti dall’altra parte della città, zona Rebibbia, per il derby con il Capannelle. «Siamo tutti dello Sri Lanka tranne due figli di srilankesi, nati qui, e due ragazzi bianchi romani, con i quali raggiungiamo la quota minima regolamentare di 4 giocatori con passaporto italiano», ci spiega Prabath, che ha 46 anni e viene da una famiglia borghese.
La sua storia di emigrazione si incrocia con il crollo dell’Urss. Nel 1991, grazie a una borsa di studio, si trasferisce a Mosca, all’Università Lumumba. Poi fugge in Italia, dove comincia a lavorare nelle pulizie, settore in cui si specializza fino a diventare un piccolo imprenditore, che dà oggi lavoro a molti dei suoi compagni tra cui lo stesso Dinidu: «Nel frattempo ho organizzato la mia rete di amici intorno al cricket e ho fondato una squadra, che adesso si chiama appunto Roma».
[[ge:rep-locali:espresso:285161990]]Intanto siamo arrivati allo stadio. Cioè, non è proprio uno stadio. È un’area di una bella riserva naturale, Valle dell’Aniene. Qui Prabath e i suoi delimitano il campo e organizzano il pitch, il rettangolo. Niente spogliatoi né docce, dunque.
La Roma - che ha anche una squadra femminile, con sette srilankesi che giocano nella nazionale italiana - è tra le società più monoetniche. Milano, Brescia, Trentino, Bologna e Capannelle sono invece un misto di indiani, pakistani, bangladesi e srilankesi. Nel Capannelle c’è per esempio anche un pakistano, Ahmmad Ijaz, musulmano, 44 anni, di professione imbianchino. Il loro presidente-allenatore-fondatore si chiama Francis Alphonsus Jayarajah, detto Alfonso. È stato il primo capitano della nazionale italiana, è nato nel nord dello Sri Lanka 67 anni fa ed è arrivato qui con una borsa di studio nel 1968. «All’inizio giocavamo a Villa Doria Pamphilj tra funzionari della Fao e delle ambasciate del Commonwealth», ricorda. Sulla partita di oggi è abbastanza fiducioso: «Abbiamo vinto lo scudetto due anni fa. Noi però ora abbiamo cinque giocatori che hanno imparato il cricket in Italia, è più dura».
Capannelle, infatti, è uno dei team che sta provando a giocare con più italiani. Come Michele Morettini, uno dei due bianchi non-oriundi della nazionale. «Il bello del cricket è che è uno sport sia individuale sia di gruppo», racconta Michele. «Certo, ci vuole molta concentrazione, perché ci sono tante regole e la partita può durare anche otto ore, motivo per il quale nessun amico viene mai a vedermi».
Alcuni degli immigrati che giocano nella nazionale italiana non hanno la cittadinanza (quindi se non hanno un lavoro rischiano l’espulsione). Come è possibile? «Perché noi siamo più avanti della società», ci dice Simone Gambino, 57 anni, presidente della Federazione: «Tesseriamo chi ha la residenza da almeno 7 anni e anche chi è nato qui, applicando dunque il famoso ius soli, che in Italia non si riesce invece a far ancora valere per la cittadinanza».
In nazionale la nostra Federazione, ammessa al Coni nel 1997, è riuscita a far entrare in massa anche gli oriundi - con una iniziativa dell’allora ministro Mirko Tremaglia, promotore della legge per il diritto di voto degli italiani all’estero - e così oggi gli azzurri puntano su molti figli di emigrati in Australia e Sudafrica. È merito sia dei Dinidu sia di oriundi come Peter Petricola se la nostra nazionale ha vinto gli Europei nel 2013. «Nella classifica mondiale siamo 25esimi su 106, in quello che è il secondo sport al mondo grazie all’immensa popolarità nel sud-est asiatico. Con un 50 per cento circa di oriundi e un 50 di immigrati e nuovi italiani, la nostra nazionale rappresenta al meglio la storia dei nostri ultimi 150 anni. Quello del cricket italiano è un laboratorio del nostro futuro. Il 90 per cento dei giocatori dei nostri campionati è di origine immigrata, quasi tutti del sud-est asiatico, e al loro interno il 10 per cento ormai ha la cittadinanza», spiega Gambino. «La diffusione delle squadre ricalca la mappa di questa parte della nostra immigrazione. Penso al Nord, ai pakistani che sono perno dell’industria metallurgica di Brescia, ma anche agli indiani delle tre squadre di Latina. Mentre più a sud abbiamo solo Napoli e Palermo».
In Italia il cricket è praticato solo a livello dilettantistico. Chi ci gioca non guadagna nulla, al massimo qualche rimborso spese. Persino quando partecipano agli Europei, ognuno prende in tutto 400 euro (perdendo magari 10 giorni di lavoro). «La mia federazione ha un bilancio solo di mezzo milione di euro all’anno, 320 mila euro dei quali arrivano da quella internazionale, mentre il Coni ci dà 90mila euro e altrettanti arrivano da sponsor e quote di iscrizione», spiega Gambino.
Ma quanti sono a giocarci? «Abbiamo 2500 tesserati, ma saranno solo un nono di quelli che lo praticano in varie forme». Già. Perché oltre al campionato federale (42 società divise in 4 categorie), ci sono tornei alternativi come quello Uisp. Qui ci sono storie come quella, davvero affascinante, del Piazza Vittorio Cricket Club, a cui il regista Jacopo de Bertoldi e la producer inglese Suzy Gillett stanno dedicando un bel documentario, “This is not cricket”. Suzy giocava a cricket da bambina nella sua Londra multietnica. «Come quasi tutti gli italiani, non conoscevo per niente questo sport. È stata una scoperta», dice invece Jacopo. «Eppure il cricket è arrivato in Italia insieme al pallone, la nostra società di calcio più antica, il Genoa, si chiama ancora Genoa Cricket and Football Club».
Jacopo e Suzy si sono innamorati del Piazza Vittorio, squadra che è stata messa su nella piazza più multietnica di Roma da due italiani con simpatie anarchiche che hanno coinvolto nel progetto indiani, bangladesi, pakistani, afghani e srilankesi, tutti senza cittadinanza e oggi intorno ai 20 anni, immigrati arrivati qui da poco. C’è chi fa il fruttivendolo, il portiere di notte, il venditore ambulante di accendini. Il Piazza Vittorio, che è riuscito a vincere più di un trofeo, ad un certo punto era stato sciolto, anche perché un imam aveva ingaggiato due dei ragazzi perché facessero proselitismo, e quei soldi avevano dato loro un po’ alla testa. Oggi però la squadra è stata rifondata, ed è tornata ad essere un modello di integrazione.
A Valle dell’Aniene, intanto, la partita è finita. È durata quasi nove ore. Alla fine la Roma ha battuto Capannelle 245 a 205, e ora sotto un grande albero si mangia e si beve tutti insieme. Alcuni non faranno tardi, però. Tra poche ore, per Dinidu, stella della nazionale italiana, inizia il turno di notte in albergo.