È un vero e proprio giallo. La pen drive che Michele Zagaria aveva nel covo dove è stato catturato è sparita. Gli investigatori sospettano uno scambio di denaro con un uomo delle forze dell'ordine per salvare la memoria informatica dell'organizzazione nella quale sarebbe custodita la mappa del tesoro e la rete di complicità. E sullo sfondo l'ipotesi di una trattativa per la resa del latitante
C'è una pen drive a forma di cuore, che ha trasformato l'arresto del più importante boss dei Casalesi,
Michele Zagaria, in un mistero. E se venissero confermati gli indizi trovati dal Ros dei carabinieri nell'ultima indagine sul clan di Gomorra, lo scenario che va delineandosi ha i contorni di una possibile ultima tappa della trattativa tra stato e camorra. Un dialogo sotterraneo sullo sfondo del grande affari rifiuti.
La chiavetta usb nelle mani del padrino fino a poche ore prima del suo arresto, è improvvisamente scomparsa durante le operazioni di cattura della primula rossa dei Casalesi. Un caso che diventa centrale proprio nell'inchiesta sulla trattativa che la direzione distrettuale antimafia di Napoli sta conducendo.
Quel giorno atteso 16 anni Il grande giorno era arrivato. La conferenza stampa per comunicare i particolari dell'arresto di Zagaria era stata fissata il 7 dicembre 2011 al secondo piano del tribunale di Napoli. Presenti l'allora Procuratore Nazionale Antimafia
Pietro Grasso e Giandomenico Lepore, a capo della Procura partenopea. C'erano tutte le forze dell'ordine e il pool anticamorra al completo. Tutti erano in attesa di conoscere i particolari della cattura di Michele Zagaria, il capo dei capi latitante da 16 anni.
Zagaria è stato arrestato da uno dei migliori poliziotti su piazza,
Vittorio Pisani, all'epoca al servizio centrale operativo, per anni capo della squadra mobile di Napoli. Tra le domande che sono state rivolte al procuratore capo, una riguardava proprio la presenza di Pisani durante le operazioni, visto che in quel periodo il poliziotto era implicato in un' inchiesta per favoreggiamento a un clan napoletano (al processo fu assolto) e per questo motivo aveva ricevuto il divieto di dimora nella provincia napoletana.
Lepore, però, senza esitazione aveva risposto: «Il dottor Pisani è stato oltre che amico mio, lo conosco da anni, un ottimo funzionario di polizia, potrebbe essere autore di qualche errore, ma sarà un giudice terzo a giudicare. Ha dato una mano alla cattura di Zagaria». Sembrava la parole fine su quella vicenda. E, invece, il capitolo sulla cattura del boss a quattro anni di distanza diventa un vero e proprio giallo.
Un cuore sparito nel covoÈ la recente inchiesta “Medea” della Procura di Napoli a svelare alcuni retroscena su quella cattura. Le informative dei carabinieri del Ros sollevano alcuni dubbi e molte domande. Nel rapporto finale inviato ai magistrati un intero capitolo è dedicato all'arresto di Zagaria. E in particolare rivela che il boss, nel covo super tecnologico, aveva co sé una chiavetta a forma di cuore. Ma cosa ci fosse dentro non è dato sapere.
Di quella pen drive non c'è più traccia.Questo filone parte da una intercettazione ambientale tra Augusto Pezzella, intraneo ad ambienti camorristici, e il fratello Raffaele. Era maggio 2012. I due in auto parlano della chiavetta scomparsa: «Mi metto pure paura a raccontarlo» dicono. Sostengono di aver acquisito le informazioni da
Orlando Fontana, coinvolto nell'indagine. La procura, infatti, nel luglio scorso, chiede e ottiene l'arresto dei fratelli Fontana, tra le altre cose, sono accusati, in particolare Orlando, di aver ricevuto la chiavetta da un poliziotto, dietro compenso di 50 mila euro, per poi cederla «ad un casapesennese» legato al clan. Sentiti questi dialoghi, i militari danno il via alla seconda fase: l'obiettivo è identitifcare l'agente infedele e chi oggi è in possesso della chiavetta. Ormai, però, è quasi certo, che il supporto informatico sia stato completamente ripulito del suo contenuto.
Un altro passaggio del documento, invece, getta un'ombra, al momento senza riscontri, su
Vittorio Pisani. I militari dell'Arma scrivono, commentando un'intercettazione, che «Orlando Fontana sembrava confermare il coinvolgimento dell’ ex Capo della Squadra Mobile della Questura di Napoli, Vittorio Pisani, nello scambio “chiavetta” - denaro». Pisani, è bene precisarlo, non risulta indagato.
Al momento l'unico fatto certo è dunque l'esistenza di una pen drive nel covo. Ne sono certi gli investigatori. Non hanno dubbi perché un perito ha analizzato il computer trovato durante la perquisizione. Una perizia che hanno in mano,infatti, gli conferma un dato preciso: Michele Zagaria inserì una chiavetta nel computer alle 6 e 18, «mentre erano in pieno corso le operazioni di trivellazione del bunker», ma di quel supporto non c'è traccia. In pratica, secondo chi indaga, «il congegno venne consegnato a qualcuno da parte dello stesso Michele Zagaria nelle fasi iniziali della sua cattura».
Una memoria informatica che vale oro, perché «probabilmente c'eraro i dati sul tesoro del boss», si legge nell'informativa. Nelle fasi iniziali della cattura, scrivono i detective dell'Arma, i primi a scendere sono stati tre agenti: Pisani più due agenti. I magistrati entrarono in un secondo momento. Federico Cafiero De Raho, ai tempi aggiunto dell'antimafia di Napoli e ora capo della procura di Reggio Calabria, fu tra i primi ad arrivare.
«È stato così breve il tempo in cui i poliziotti sono stati soli con Zagaria che mi sembra impossibile qualunque accordo che non sia stato precedente, ma anche questa ipotesi dovrei escluderla per l'impegno e tutte le indagini approfondite che sono state fatte per arrivare al latitante, ma naturalmente questo è un fatto che dovranno valutare facendo le indagini», spiega a “l'Espresso” il procuratore, che aggiunge: «Quando arrivai il covo era ancora chiuso, ma appena ho avuto la certezza che ci fosse Zagaria dentro urlai “lo Stato ha vinto”, subito dopo nell'attesa che aprissero il bunker uscìì fuori per telefonare al procuratore capo. Quando tornai dentro il rifugio era aperto, dentro c'erano due poliziotti, tra cui Pisani, che perquisivano il locale. Io entrai con il collega Raffaello Falcone».
La doccia del boss C'è poi un altro particolare. E lo raccontano i Pezzella quando parlano al telefono e riferiscono alcuni aspetti relativi alla cattura noti unicamente a chi ha partecipato alla cattura e non divulgati alla stampa. «Come è?...E quello ci arrivò là...oppure tennero quella mezz’ora di tempo...ragionarono prima e poi dopo si andò a lavare?». I carabinieri del Ros hanno guardato, allegandolo agli atti, un filmato scoprendo che a scendere nel covo furono tre agenti, tra questi anche Vittorio Pisani. Ed effettivamente a Michele Zagaria fu concesso di lavarsi, di farsi una doccia. Si legge nelle carte dell'inchiesta: «Tale fatto costituisce una prova certa del fatto che Zagaria venne autorizzato a lavarsi (verosimilmente a farsi una doccia) e che abbia avuto un contatto diretto ed esclusivo con uno o due poliziotti all’interno del bagno ove si stava lavando».
La procura così, accertata la scomparsa della usb e ipotizzato il passaggio della stessa ai fratelli Fontana, analizza eventuali rapporti tra gli imprenditori Fontana e la Squadra Mobile di Napoli concludendo che «I Fontana sono stati individuati dalla squadra mobile di Napoli, dal dottor Vittorio Pisani, come interlocutori privilegiati per arrivare alla cattura di Michele Zagaria». E i Fontana erano effettivamente legati al potente boss dei Casalesi: Giuseppe Fontana, per esempio, viene definito 'imprenditore di Zagaria'.
«È un complotto contro Pisani», parla il testimone di giustizia che ha mediato gli incontriNell'informativa, deposistata agli atti, c'è un capitolo dal titolo «La conoscenza tra Pisani, i fratelli Fontana e il testimone di giustizia Francesco Piccolo». In particolare viene riportato l'incontro nel 2009 tra Orlando Fontana e Francesco Piccolo. Quest'ultimo, poi, lo racconta a Giuseppe Fontana, fratello di Orlando.
"L'Espresso" ha contatto Piccolo, che dà una versione opposta a quella degli investigatori: «Giuseppe Fontana è un caro amico di infanzia. I Fontana sono innocenti. Questa storia è un complotto dentro le forze dell'ordine contro Pisani. Vogliono farla pagare agli imprenditori che hanno denunciato. Sono i pentiti che si vendicano e chi non ha denunciato continua a lavorare. Io accompagnai Orlando Fontana da Pisani, ma non verbalizzò, furono colloqui informali. I Fontana hanno dato il loro contributo, hanno fornito informazioni che sono servite a catturare Zagaria, ma io non assistevo ai colloqui».
In un passaggio di una intercettazione Piccolo parla con Fontana e di Pisani dicono: «E' uno che si sporca le mani». Il testimone prova a spiegare quella frase: «Si sporca le mani perché non ha paura di parlare con le persone. Solo così si arrestano i malavitosi».
Una vicenda quella del covo e della chiavetta che si aggiunge ad un'altra ancora senza spiegazione. Come è stato possibile per il boss Michele Zagaria, a due giorni dall'arresto, il 9 dicembre, presentarsi all'ufficio matricola del carcere di Novara, in possesso di 1200 euro in contanti? Un caso che aveva già sollevato dubbi sui controlli ai quali era stato sottoposto il più temuto boss dei Casalesi.
Interrogativi sollevati, per la prima volta, in un suo articolo da Rosaria Capacchione, giornalista del Mattino, e oggi senatrice del Pd. Un quesito, l'ennesimo, ancora senza risposta.
I soldi per cattuare ZagariaMa i misteri non finiscono mai in questa storia di intrighi e camorra. Durante le intercettazioni a carico di Augusto Pezzella emerge anche un altro dato. Appartententi alle forze di polizia avrebbero avvicinato Orlando Fontana offrendogli 10 milioni di euro per arrivare a Michele Zagaria. Un caso che ricorda quello raccontato anche da Gaetano Vassallo, il collaboratore di giustizia che in una intervista al Fatto Quotidiano, aveva dichiarato: «Ho incontrato agenti dei servizi segreti nel periodo 2006-2007. Mi hanno contattato perché volevano arrestare Iovine e Zagaria. Ci sono stati tre incontri, due in un albergo e un altro all’uscita autostradale di Cassino. Potevo incontrare Iovine, ’o ninno, e Zagaria in qualsiasi momento. Li conoscevo, io ero imprenditore del clan. Il patto era di fargli arrestare i due latitanti in cambio di mezzo milione di euro, 200 mila euro per Iovine, 300 mila per Zagaria. Io chiesi anche la garanzia della libertà per me, ma non accettarono. E l’accordo saltò».
Il giallo Zagaria, insomma, si tinge sempre più di noir.