A proposito dell’arte in tempo di guerra. E di quella poesia che ha la forza necessaria per compensare e lenire lutti e mancanze. Anche quando la guerra in questione è quella in Siria, che in cinque anni ha prodotto 280.000 morti, 7 milioni di sfollati e 4 milioni di rifugiati nei Paesi limitrofi. Il più grande esodo nella storia recente.
Alessandro Gassman, attore, regista e sceneggiatore, ha provato a raccontare questa realtà con uno sguardo diverso. Quello dei tanti artisti siriani che oggi vivono nel campo di Zaatari, in Giordania, e a Beirut, in Libano. Poeti, scrittori, musicisti, drammaturghi, attori, scultori, registi e pittori che Alessandro ha incontrato e intervistato durante il viaggio intrapreso lo scorso febbraio al seguito dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) di cui era appena diventato ambasciatore.
Da questi incontri è nato un documentario affascinante e prezioso, prodotto dal regista e dall’UNHCR, presentato alla 72ª Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia dallo stesso Gassman e da Carlotta Sami, portavoce UNHCR per il Sud Europa. Si intitola “Torn”, ovvero strappati, come lo sono i milioni di siriani costretti a lasciare la loro casa ma ancora fortemente legati ad una terra in cui sperano di potere tornare.
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«Non sapevo nulla della Siria» ci racconta Alessandro Gassman davanti il mare del Lido di Venezia, dove soffia un vento insistente e gelido nonostante il sole. «Ho pensato che il modo migliore per conoscere la storia di questo Paese fosse quello di incontrare gli artisti siriani. Sapevo che avremmo parlato la stessa lingua e che la loro testimonianza sarebbe stata il modo migliore per spiegare cosa è stata, cosa è e cosa speriamo possa tornare ad essere la Siria. Avevo già collaborato con Amnesty International e desideravo occuparmi di più di rifugiati. Quando Carlotta Sami mi ha proposto di diventare ambasciatore UNHCR ho accettato, ma con l’impegno di essere utile veramente facendo qualcosa di attinente al mio lavoro. Sono partito con l’idea di un reportage, poi strada facendo ho maturato il progetto di un documentario che avesse un sapore anche cinematografico».
Per un uomo di teatro e di cinema come lei, che esperienza è stata?
«È stato un viaggio in qualche modo rassicurante. La Siria ha una storia millenaria come la nostra e ho scoperto un popolo che ci assomiglia molto. Anche loro danno molta importanza alla cultura, all’arte e alla poesia, che sono tra le cose che i siriani sanno fare meglio. E poi, anche loro sono “mischiatissimi” come siamo noi, frutto dell’incrocio di tante culture».
A questo proposito, si definisce “mezzo francese, un quarto italiano ebreo, un quarto tedesco”. Cosa le hanno insegnato queste sue origini e che peso hanno avuto in questa sua esperienza?
«Ho fatto tanti viaggi nella mia vita e mi sono sempre sentito a casa ovunque andassi. Forse deriva anche da questo e dal fatto che anche io, in fondo, vengo da una famiglia di migranti. Mio padre dalla Germania è venuto in Italia e mia mamma è la mia “zingare preferita”. Oggi vive in Messico in un piccolo paese a 2600 metri di altezza, in mezzo al nulla, e ha ricostruito la sua vita lì. Ormai è una vera messicana».
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L’esperienza in Giordania e in Libano cosa le ha lasciato come persona e come artista?
«Mi ha ricordato quanto questa nostra parte del mondo sia fortunata e mi ha fatto anche sentire più utile alla società, il che nel nostro lavoro non sempre accade. Al massimo imitiamo la realtà o ce ne inventiamo una che non esiste, invece per la prima volta ho avuto a che fare con materia vera ed è stato il viaggio più bello e insieme più brutto della mia vita, perché ho visto anche tante cose terribili. Le condizioni di vita sono difficili, nel campo di Zaatari in Giordania 85.000 persone vivono nei container e si scaldano con le stufe. Non che gli Aquilani se la passino meglio».
Lei ha sempre uno sguardo molto attento sull’attualità italiana e in questo momento il fenomeno della migrazione riguarda in modo molto diretto anche il nostro Paese…
«Innanzitutto in termini di migrazione vera e propria. Non dimentichiamoci che oggi si stimano 60 milioni di italiani emigrati all’estero. Sono appena tornato dall’Uruguay, dove ho lavorato con Rocco Papaleo al suo prossimo film, e ho scoperto che il 40% della popolazione è italiana o di origine italiana. Fanno gli gnocchi meglio di noi, la farinata ligure è un piatto tipico nazionale e ci assomigliamo molto. Quanto al discorso sull’immigrazione, è un fenomeno che non si può fermare. Siamo davanti a persone che vengono in Italia non certo per vedere com’è ma solo perché non possono più stare nei Paesi in cui vivono. E muoiono per questo, via mare o via terra. Se mi trovassi nella loro condizione, se rischiassi la vita come loro, anche io prenderei la mia famiglia e cercherei rifugio in uno dei Paesi di confine, Francia, Austria o Svizzera non importa».
Lei si è sempre esposto in prima persona, dallo scontro in tv con Giorgia Meloni alle recenti polemiche via Twitter sulla questione della spazzatura a Roma. Da cittadino, ha mai la sensazione che in Italia il politico non abbia più niente a che vedere con la politica?
«Purtroppo in Italia la politica si percepisce e si vive solo come sudditanza. Ribadisco che la politica è la nostra rappresentanza stipendiata e che i politici sono nostri dipendenti, in quanto tali dovrebbero avere maggiore rispetto di chi rappresentano. Anche io sbaglio, faccio tanti errori, mi arrabbio, ma non sono buonista, perché il buonismo è altrettanto deleterio. Irrita e non produce risultati. Bisogna trovare un equilibrio, che significa anche compromessi e i compromessi sono difficili, estenuanti, ma si devono fare. Anche quando chi ci parla sta dicendo delle stupidaggini non dobbiamo smettere di ascoltare finché non ha finito di parlare, anche per potere rispondere nel modo più giusto».
Marco Bellocchio in concorso con il film “Sangue del mio sangue” ha criticato i social network e ha dichiarato che Facebook sta provocando una “trasformazione antropologica, con tutta questa sincerità ad ogni costo di cui si fa sfoggio”. Lei, che invece fa ampio uso di Twitter, cosa ne pensa?
«In realtà uso Twitter soprattutto per lavoro, per parlare dei miei progetti, come fosse una micro testatina giornalistica per raccontare ciò che faccio, ma anche come la penso. La rete e i social network sono le macchine più meravigliose e allo stesso tempo orribili. Si scatena tanta repressione e tanta rabbia, più facili da sfogare quando si resta nascosti dietro un profilo. Sono certo che, in molti casi, chi insulta sui social nella vita è meno aggressivo. Un po’ come Salvini, che quando parla in televisione usa un tono e un linguaggio ben diversi da quelli che usa nei comizi, perché sa che nei comizi è circondato da gente che la pensa come lui. Questo è un difetto comune a molti nostri politici, che invece dovrebbero usare lo stesso linguaggio in casa, in tv e nei comizi. Altrimenti sembrano persone schizofreniche e disoneste».
C’è mai stato durante la sua esperienza nel campo anche un solo istante in cui ha desiderato di non tornare?
«No. Perché la mia casa è qui e perché lì non sarei utile come invece lo sono le associazioni impegnate sul territorio che, come l’UNHCR, fanno un lavoro prezioso. Ad ognuno il suo mestiere ed il mio è quello di fare sorridere, sognare, emozionare. E di raccontare storie, in un momento in cui raccontare la realtà ha una sua valenza molto importante».
Le storie che lei ha scelto di raccontare con “Torn” sono molto potenti e la forza di questi artisti siriani rende molto bene l’idea di regime, il dolore della diaspora e il bisogno di speranza. Il contrasto tra il bianco omologante dei container nel campo di Zaatari e la creatività artistica che esplode al suo interno che impatto hanno avuto sul suo documentario?
«Lo stesso più o meno che ho avuto quando ho lavorato al mio primo film da regista, “Razzabastarda”, con cui questo documentario ha una forte attinenza. Come lì, anche qui racconto fiori che nascono nelle macerie. Gli artisti che ho incontrato e intervistato sono tutti rifugiati che non hanno mai smesso di lavorare e dentro il campo stanno creando un nucleo culturale vivo che nutre una generazione di bambini che forse la Siria non l’ha neanche mai vista o comunque non se la ricorda più. È il tentativo straordinario di un popolo di non morire e di mantenere in vita la propria cultura e la propria tradizione. I rifugiati siriani sono molto attivi e reattivi, non si piangono addosso».
Mentre parliamo, il rumore del mare e del vento sembra portare con sé l’eco struggente e malinconica del violino di Alaa Arsheed, uno dei giovani artisti siriani protagonisti del documentario, oggi in Italia per realizzare il suo sogno di musicista con il suo primo album. Ed è forse anche in nome di questo sogno che ha visto realizzare che Alessandro Gassman tiene così tanto a “Torn”, in onda domani sera (11 settembre) alle 21.10 su Sky Arte, e alla campagna fondi promossa dall’UNHCR (per aiutare i rifugiati e ridurre il rischio che molti finiscano nelle mani dei trafficanti di esseri umani.
«Le rotte delle migrazioni oggi non sono più prevedibili» spiega Carlotta Sami, portavoce di UNHCR per il Sud Europa, al fianco di Gassman in questa iniziativa. «Sono persone in fuga e se trovano un ostacolo cercano disperatamente altre vie per scappare. Oggi la fuga dalle guerre è un dramma epocale, non è semplice gestire una crisi umanitaria come questa, ma è necessario farlo. Ed è impensabile che l’Europa non sia in grado di aiutarle».