Il filmaker più emozionante e i due autori più cinici del cinema Usa insieme per un attesissimo thriller ambientato durante la Guerra Fredda. Ve lo raccontiamo in anteprima

Un’alleanza nata in Paradiso: Steven Spielberg e i fratelli Coen. Due poetiche apparentemente inconciliabili tra loro: il primo, padre del moderno blockbuster hollywoodiano pieno di buoni sentimenti; i secondi, i fratelli terribili che hanno fatto dell’iconoclastia la loro bandiera. Eppure “Il Ponte delle Spie”, ritorno alla regia del papà di E.T. a tre anni dai fasti di “Lincoln”, ha fatto il miracolo: unendo alla regia di Spielberg una sceneggiatura firmata dai Coen insieme al debuttante inglese Matt Charman. Il risultato è un film che, dopo aver snobbato i festival di Venezia e Toronto, è uno dei più attesi di quello di New York, che aprirà con la première del 4 ottobre. Prima tappa di quello che già molti vedono come un cammino sicuro verso la notte degli Oscar.

Mattatore assoluto di questo tesissimo e coinvolgente thriller politico ambientato nella cornice della “Cortina di Ferro” è Tom Hanks, qui alla sua quarta collaborazione con Spielberg dopo “Salvate il soldato Ryan”, “Prova a prendermi” e “The Terminal”. Per la prima volta dai tempi de “Il Colore Viola”, per il “Ponte delle Spie” Spielberg non ha potuto invece affidare la colonna sonora al fidato John Williams (che ha musicato 26 su 27 film di Spielberg ed è già al lavoro sulla prossima fatica del regista, “The BFG”). Assente giustificato per problemi di salute ora risolti, Williams è stato sostituito da Thomas Newman, nominato all’Oscar per ben dodici volte (per le colonne sonore di successi come “American Beauty”, “Alla Ricerca di Nemo” e “Skyfall”).
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“Il ponte delle spie”, che uscirà negli Usa a metà ottobre e in Italia a dicembre, racconta una storia vera. Siamo nel 1957, in pieno clima paranoico da guerra fredda, tra la corsa agli armamenti tra Usa e Urss e l’incubo di un conflitto nucleare imminente. James Donovan (Tom Hanks) è un brillante avvocato assicuratore. La sua vita tranquilla riceve uno scossone il giorno in cui la Cia riesce finalmente ad arrestare Rudolf Abel, spia russa che aveva agito indisturbata sul suolo americano per quindici anni. Lo interpreta Mark Rylance, bravissimo attore inglese di teatro (ha diretto per dieci anni il Globe Theatre) che Spielberg ha definito «uno dei migliori attori del mondo in questo momento. L’ho visto a teatro nella “Dodicesima notte” e per questo ho pensato a lui quando cercavo un attore per quel ruolo».

Abel non ha un legale difensore e quando l’associazione degli avvocati newyorkesi, nel suo giro di routine, contatta Donovan, lui tra la meraviglia di tutti accetta quell’incarico così lontano dalle sue competenze abituali. Già dal primo incontro con Abel, Donovan rimane colpito dai modi gentili e composti dell’uomo, che nulla ha degli stereotipi della “spia che venne dal freddo”. Abel è colto, parla cinque lingue, è un artista dei pennelli straordinario e ha un’unica debolezza: la passione per il fumo. Tra i due nasce subito un legame empatico che trascende qualsiasi divisione ideologica e patriottica.

Intorno all’avvocato però l’ostilità è evidente. I soci di Donovan non sono entusiasti dell’iniziativa, che attira sullo studio i riflettori del grande circo mediatico. E anche la sua agiata famiglia altoborghese - la moglie Mary, interpretata da Amy Ryan, e i tre figli - teme ripercussioni. Non sono timori infondati. Mentre il processo va avanti, la vita tranquilla di un tempo viene avvelenata da occhiatacce di disprezzo in metropolitana, lettere minatorie, intimidazioni telefoniche e persino spari contro la porta di casa. A chi gli chiede perché abbia accettato l’incarico, Donovan spiega: «Amo il mio paese. Apprezzo ogni parola della nostra Costituzione. E proprio per questo voglio fare per quest’uomo il miglior lavoro possibile». Ma in pieno maccartismo, questo non basta ad evitare che “l’avvocato del cattivo” venga guardato con sospetto.

Sospetti che si fanno ancora più pesanti quando Donovan ottiene la prima vittoria: con arguzia e logica implacabile riesce a smontare la credibilità del principale testimone dell’accusa, una talpa russa che si distingue per una condotta immorale (bigamia e alcolismo) che lo avrebbe fatto considerare inaffidabile in qualsiasi altro processo. Al termine del processo, Abel viene comunque condannato a morte. Ma Donovan riesce a convincere il giudice a commutare l’esecuzione con una pena detentiva: Abel potrebbe tornare utile in caso di un eventuale scambio di prigionieri.

Ed è proprio quello che succede. Durante uno dei primi voli con un aereo spia U-2, un giovane pilota, Francis Gary Powers (interpretato da Austin Stowell), precipita oltre la Cortina di Ferro. È un incidente scioccante che Spielberg ricorda particolarmente bene: in quel periodo suo padre Arnold, ingegnere elettronico, si trovava in Russia per una visita di lavoro, e venne portato dai colleghi a vedere il casco e la tuta di Powers, esposti come un trofeo. «Un militare vide il passaporto americano di mio padre», ha raccontato il regista, «lo additò alla folla e cominciò a gridare arrabbiato: “Vieni a vedere che cosa il tuo paese sta facendo al nostro!”».

La “crisi degli U-2” è per gli Usa l’occasione per liberarsi di quel prigioniero scomodo. Nel cuore della notte, Donovan è convocato dal direttore della Cia, Allen Dulles, per una missione ad altissimo rischio: trattare, da privato cittadino e senza qualifica ufficiale, lo scambio di prigionieri all’ambasciata sovietica nella Germania Est. Non c’è un attimo da perdere: i russi stanno costruendo a ritmi forzati il Muro di Berlino e una volta completato ogni accesso sarà impossibile.

È così che l’ex avvocato delle assicurazioni si trova catapultato a Berlino Ovest, sotto la guida dell’agente speciale Zachary More. Lì Donovan si scontra con le ambiguità dell’avvocato di parte russa, Wolfgang Vogel (interpretato dal bravissimo Sebastian Koch, indimenticabile vittima delle spie della Stasi nel film “Le vite degli altri”), ma la trattativa si sblocca quando l’avvocato ottiene di parlare direttamente con quello che crede essere solo il vicesegretario d’ambasciata, ma che in realtà è il capo del Kgb locale. Durante il viaggio di ritorno, Donovan viene arrestato: ma una volta liberato ottiene di aggiungere allo scambio di prigionieri anche il rilascio di un giovane americano incontrato in cella.

Il luogo scelto per lo scambio di prigionieri è particolarmente infido: il ponte di Glienicke, situato sulla linea di confine tra le due Germanie. Quello che da quel giorno in poi sarà chiamato “Il ponte delle spie”, che oggi è un’attrazione turistica. La tensione è palpabile, cecchini appostati ogni dove, ognuno teme per un possibile tradimento dell’altro. E l’abilità di Spielberg sta nel tenere in tensione anche chi, tra il pubblico, già sa come finirà la storia.

Che è stata, per Donovan, la rampa di lancio verso una luminosa carriera di mediatore: dopo la fallimentare invasione della Baia dei Porci, John Kennedy lo mandò a Cuba, per trattare con Fidel Castro il rilascio degli oltre mille militari prigionieri. Anche in quel caso, Donovan riuscì a ottenere anche più di quello che doveva: in cambio di venti trattori e di 53 milioni di dollari in cibo e medicine, ottenne da Castro la libertà anche per 8.500 dissidenti cubani e tre agenti della Cia.