Günter Grass, nel libro postumo l'ultima provocazione dello scrittore tedesco

Cucina e battute, arte e malinconia. Vezzi e scherzi del Nobel tedesco spiegati da un giornalista che lo conosceva bene

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Come al solito, l’aveva scritto, disegnato e realizzato sin nei minimi dettagli grafici. Poi, il 13 aprile scorso, a 88 anni, Günter Grass è spirato. E ora il suo editore e amico, Gerhard Steidl ha pubblicato l’ultima fatica del grande scrittore tedesco, un’opera spiazzante e provocatoria sin dal titolo: “Vonne Endlichkait”. In tedesco corretto, infatti, il titolo dovrebbe essere: “Von der Endlichkeit”. Invece Grass «si è affidato al più scanzonato dialetto prussiano per intonare il suo spietato inno “Sulla finitezza”, sulla caducità della vita e delle umane opere. Ne è venuto fuori un mix di 173 pagine in cui versi e aforismi, fulminanti epitaffi ed esilaranti brani in prosa si mescolano agli astrusi oggetti, ai truculenti simboli e a quel Bestiario sempre caro al folle alchimista Grass.

Sparsi tra le sue ultime pagine ritroviamo così mucchi di chiodi storti accanto a candide piume d’uccello. E tra una poesia e l’altra all’“Impotenza”, alla “Nostalgia” o “Alla fine”, ecco sfilare sulla carta, a carboncino o matita, topi scheletrici, torvi corvi e macabre danze di rospi rinsecchiti. Tra un lamento per i vari acciacchi e un’angosciante “Addio”, brillano anche i gusci di madreperla e le strisce argentee delle sue amate, schiumose lumache: «Sono il simbolo», mi ha spiegato una volta Grass, «del lento progresso della società e del bagliore della poesia di cui abbiamo sempre bisogno». Specie nei momenti più grigi degli ultimi anni, come questo estremo tributo di Grass alla “fine” testimonia.

Dopo “L’incontro di Telgte” - la novella in cui Grass s’inventò un raduno degli scrittori tedeschi scampati alla Guerra dei Trent’anni - “Sulla finitezza” è il suo libro più ispirato ai pomposi e mortiferi temi dell’era barocca. Ed è anche quello in cui il poeta di Danzica torna a presentarsi nudo ai lettori. Se in quel clamoroso libro del 2006 aveva confessato d’essersi arruolato come volontario nelle Waffen-SS, qui svela tic, miserie e paturnie personali, a partire dal suo umore fosco e (spesso, ma non sempre) melanconico. «Oggi la melanconia», leggiamo in un passo del libro, «è vista come depressione, ma è una parte di me». Anzi, una parte fondamentale di ogni scrittore «perché», precisa Grass, «è lei che ci rivela gli abissi, e senza di lei non ci sarebbe più arte».

Così musone e introverso lo scrittore non lo era affatto: anzi, era uno che dopo una cena con gli amici amava bere e ballare. E per strappare una risata o un urlo ai suoi nipotini era capace di togliersi la dentiera, e mostrarsi a bocca (quasi) vuota: proprio come lo vediamo in uno sconvolgente “Autoritratto“ a matita che nel libro accompagna “Der Letzte”, brano impietoso dedicato appunto al suo “Ultimo” dente. Al colmo di uno spleen nichilista (ed istrionico), nel libro arriva a definirsi «un giullare del Nulla»; ma in realtà Herr Grass era un provetto artigiano, dotato di un’energia pazzesca. Certo, negli ultimi tempi due bypass e l’udito quasi spento lo avevano un po’ castigato. Eppure ogni mattina (a volte, per l’insonnia, dall’alba) eccolo lì nel suo atelier di Belendorf, presso Lubecca, a “disegnare”, con quelle sue dita sempre intrise d’inchiostri, nuove poesie, altri acquarelli o acquaforti; e lo faceva sempre stando dritto in piedi davanti ai suoi leggii.

Su uno di questi troneggiava uno dei suoi feticci: la sua azzurognola “Lettera 22”, l’inseparabile macchina da scrivere. O meglio: «L’amante del nonno», com’è ora ribattezzata in una poesia alla famosa Olivetti. Un artista d’altri tempi, cocciuto, sino all’ultimo senza cellulare ma fedele alle sue matite, ai temperini e agli arnesi da bottega (in questo ultimo libro si sprecano le invettive contro «l’onnipresenza che si spaccia per religione e libertà quotidiana» di Internet). Proprio come il nonno (paterno) di cui cantava spesso le lodi: un falegname spinto nel ’45 dall’avanzata russa a emigrare in Germania Ovest, e che nel libro ritroviamo nei boschi a misurare tronchi per lavori che, non avendo una bottega, non avrebbe mai potuto fare.

Ma oltre ai veleni della senilità e ai ricordi d’amici già andati, quest’ultimo libro di Grass è anche pieno di humour nerissimo, di situazioni scurrili, di frasi e versi persino osceni. Come quando l’ultraottantenne padre di otto figli e nonno di una ciurma di nipotini, invoca con le parole più truci della lingua tedesca «la Vulva, la Topa, la Fregna e la Lumaca nel guscio». O l’altra incredibile (ma assolutamente vera!) storia in cui racconta come lui e Ute - la consorte - prenotino da Mastro Adomat le rispettive bare e, dopo averle provate, le sistemino in cantina. Quella di Günter semplicissima e di betulla; più lunga, e in abete, per la moglie. E di come poi una notte “le casse” - con 8 manici per il trasporto, uno per ogni figlio - siano sparite; per ricomparire un bel giorno con dentro due topolini: «Due topini morti di fame», annota stupito lui, «di una delicata bellezza».

Anche alla sua viscerale passione per la cucina queste pagine porgono calorosi saluti. Mai conosciuto un tedesco che amasse tanto descrivere aromi, colori e sapori di piatti pesanti come la famosa “Pansen”, la trippa o, peggio, «il cervello impanato con broccoli e purè di patate», ricordato in un breve testo intitolato “Interiora”. Certo, nulla incantava di più la sua anima autunnale (era nato il 16 ottobre) che i funghi, a cui Grass ha dedicato libri, giornate nei boschi e diversi carboncini anche nel libro postumo. «Nel fungo», leggiamo, «ho sempre visto più di quel che rappresenta; il suo profumo mi ricorda l’amore carnale».

Non stupisce quindi che in questo sfrenato peana ai vizi della Carne e ai vezzi della Morte, Grass ricordi e s’inchini ai suoi Maestri spirituali: il geniale Jean Paul, autore dei più fantastici romanzi del romanticismo tedesco, e il gigante Rabelais. Sono loro i veri avi di Oskar Matzerath, l’assordante gnomo col “Tamburo di latta”, e di tutte le ninfe e streghette della sua pantagruelica letteratura. «Il romanzo europeo», ricordava in un’intervista a “l’Espresso”, «è sempre picaresco. Boccaccio lo ha rubato agli arabi; con Rabelais è passato in Francia e con il “Simplicissimus” di Grimmelhausen è giunto in Germania».

Certo, oltre che di libri e parole, il suo atelier era colmo di disegni, acquarelli o sculture: «Come le mie poesie», insisteva, «fanno parte a pieno titolo della mia arte». Ed è commovente come in queste pagine ricordi la gioia nell’aver di recente ritrovato la cartella coi suoi primi acquarelli del 1953, «quando studiavo scultura a Düsseldorf, lavoravo come scalpellino in un cimitero e la sera», amava raccontare spesso, «dormivo in un ospizio».

Da allora sono passati oltre sei decenni. L’ex scalpellino di Danzica, premio Nobel nel 1999, ne ha scritti di capolavori. Eppure ancora oggi, «ora che tutto è passato ed è fumo», intona “Vonne Endlichkait”, l’ultima laconica poesia (in dialetto) del libro, lui non ce la fa a congedarsi dalla politica, a non immischiarsi nelle rognose vicende dei suoi connazionali. AdAngela Merkel non farà piacere leggere i versi che Grass dedica a “Mutti”, la “mammina” di tutti i tedeschi, come la Kanzlerin è chiamata in Germania.

Da un lato sono sempre più ricchi, potenti e dominanti, i tedeschi: «Cresciuti ma al contempo più piccoli», annota lui, e tramutati «da cittadini in bravi consumatori». Tutto un popolo ormai stranamente «sottomesso e obbediente a una donna che ci rende docili come agnelli». E sempre più prono ai diktat imperscrutabili dei Signori del denaro: “A Francoforte sul Meno” s’intitola un’altra poesia, dove leggiamo: «Lì dove abita il denaro s’è annidata la paura. E i bambini fanno chiasso davanti alla Borsa giocando al Venerdì nero». Critico, mordace e impegnato sino alla fine Günter Grass; che sino all’ultimo ha cantato la finitezza propria e di 82 milioni di tedeschi al centro d’Europa.

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