Ricche società con investimenti in tutti i settori. Compresi quelli banditi dalla Chiesa come i compro-oro. E gestioni spesso opache. Da Padova a Trapani, ecco la mappa del denaro delle diocesi

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Il presidente dei vescovi italiani Angelo Bagnasco, nel benedire il Family Day contro la legge per le unioni civili, è stato lapidario: «Mi sembra una grande distrazione del Parlamento rispetto ai veri problemi dell’Italia». Ai “veri problemi” della chiesa italiana, di cui dovrebbe avere a cuore le sorti, però non pensa.

Sono problemi poco etici e molto venali e si riscontrano nelle molte diocesi della penisola che conservano una tradizione secolare nell’accumulare patrimoni, così grandi da non venire nemmeno censiti. Ci sono monsignori che guidano vere e proprie società per azioni, con investimenti in tutti i settori, persino in quelli che la Chiesa ha messo all’indice, come i compro-oro che incentivano l’indebitamento.

Holding a controllo ecclesiastico che continuano a crescere, con nuove acquisizioni come quella che lo scorso anno ha portato la diocesi bolognese a conquistare la maggioranza assoluta della Faac, il colosso dei cancelli automatici, o fondi immobiliari, come quello creato nel 2013 dalla diocesi di Bergamo con un portafoglio di 107 milioni. Una moltitudine di palazzi, quote di banche e fabbriche, ospedali e strutture per anziani, partecipazioni in giornali e radio che fa capo alle 227 diocesi italiane e sfugge a ogni monitoraggio.
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Questo impero economico è ancora lontano dal messaggio di papa Francesco: «La chiesa deve parlare con la verità e la povertà. Invece ci sono questi sacerdoti e vescovi che si servono della chiesa: gli arrampicatori, gli attaccati ai soldi».

Tanto che in alcune sedi i fedeli hanno cominciato a chiedere di scacciare i mercanti dal tempio. Il primo segnale è arrivato da Bolzano, dove nello scorso dicembre il sinodo locale si è concluso con una dichiarazione netta: più trasparenza, subito, e la rinuncia al patrimonio, seppur “a medio termine”. E anche Bergoglio è intervenuto direttamente, affidando a due prelati di chiara vocazione pauperista la guida delle diocesi di Bologna e Palermo, le più discusse per la passione dell’investimento. «Ancora oggi i vescovi sono fermi al Medioevo: usano i soldi come se non conoscessero il Vangelo, sono ossessionati dal potere. È difficilissimo cambiare direzione, per questo il papa trova tante resistenze», si sfoga il missionario Alex Zanotelli.

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Il censimento del tesoro dei vescovi è un mistero paragonabile al terzo segreto di Fatima. Perché a gestirlo è una pletora di istituzioni in cui sacro e profano si confondono, moltiplicando gli abusi e le malversazioni, che spesso alimentano debiti profondi nelle casse nate con il pio intento di soccorrere i bisognosi. Lo stesso Bagnasco negli anni ruggenti della fondazione genovese Carige - grazie ai due nomi che indicava nella consiglio di amministrazione - indirizzava sovvenzioni per oratori e ospedali religiosi sotto il suo controllo, mentre la banca ligure finiva nel baratro.

Un anno fa il Vaticano ha richiamato tutti all’ordine: «I beni siano strumento di evangelizzazione e non di scandalo», ha detto monsignor Antonio Neri, sottosegretario alla Congregazione del clero: «È necessario che ogni diocesi metta a punto bilanci preventivi e consultivi». Ma pochi hanno risposto all’appello. E lo status privilegiato degli enti ecclesiastici diventa il classico coperchio del diavolo: «Le regole della democrazia societaria saltano con questi enti: non pubblicano né il bilancio né lo statuto. È un mondo reticente e opaco», sottolinea Giuseppe Casuscelli, già ordinario di diritto ecclesiastico alla Statale di Milano.

Questa santa deregulation ha coperto una litania di intrallazzi, che ormai emergono con cadenza mensile in una via crucis di ammanchi e speculazioni. A Savona è stato commissariato l’istituto per il sostentamento del clero, dopo che è sfumata l’operazione da 70 milioni per trasformare le ex colonie balneari in un resort a pochi metri dal mare. Lo stesso ente è al centro di uno scandalo a Terni: i suoi dirigenti sono stati arrestati con l’accusa di avere truccato l’asta per mettere le mani sul castello di San Girolamo. Perno di tutti gli affari è proprio l’istituto per il sostentamento del clero. Al Vaticano, quello centrale raccoglie un terzo del contributo dell’otto per mille per pagare gli stipendi dei prelati. Perché nonostante l’immenso patrimonio, l’aiuto arriva dallo Stato. Con la firma nella dichiarazione dei redditi più di 19 miliardi di euro raccolti in trent’anni sono andati alla Santa Sede: solo nel 2014 si è trattato di 1.055 milioni, di cui almeno 286 girati alle diocesi per garantire la vita dei sacerdoti e provvedere ad opere caritatevoli.


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A Bologna la curia è finita invischiata in una battaglia senza esclusione di colpi per il possesso della Faac, il colosso dell’automazione con duemila dipendenti. Come spesso accade, in origine c’è un testamento: il patron dell’azienda Michelangelo Manini che nel 2012 ha lasciato al cardinale Caffarra proprietà, depositi bancari e il 66 per cento del pacchetto azionario (un miliardo e settecento milioni l’intero valore). I parenti dell’industriale si sono opposti e alla fine hanno trovato un accordo: 60 milioni per uscire di scena. Ma quando nel corso della disputa uno dei legali ha ottenuto che il tribunale sequestrasse i conti bancari, si è scoperto che 35 milioni erano spariti mentre l’intestazione di un deposito svizzero da 23 milioni era stata cambiata. Le contestazioni penali si sono chiuse tre mesi fa con l’assoluzione per l’economo della curia e il manager da lui insediato al vertice della società.

Intanto nello scorso maggio la diocesi ha comprato il resto delle quote, arrivando al cento per cento. Quanto agli utili raccolti, a novembre l’ultimo gesto del cardinale Caffarra è stata la donazione di cinque milioni alle famiglie bolognesi senza lavoro. Disoccupati come i cinquanta operai licenziati nel polo di Grassobbio (Bergamo) a causa della delocalizzazione in Bulgaria, con la promessa di venire in futuro riassunti da una nuova holding. Una beffa per chi negli stessi giorni della chiusura ha visto sfoggiare il logo Faac sulle maglie del Bologna Calcio: una sponsorizzazione costata 1,1 milioni di euro. Il nuovo titolare della diocesi Matteo Zuppi promette di cambiare linea. Tutti i profitti andranno ai bisognosi. E ha chiesto di censire gli immobili della curia per capire quanti possano essere destinati all’emergenza abitativa: finora non era neppure chiaro quanti fossero.

I DISCEPOLI DEL MOSE

A Padova tutto ruota attorno alla diocesi: il seminario vescovile, il movimento apostolico diocesano, l’opera della provvidenza di Sant’Antonio, l’Opera nostra signora di Lourdes e l’istituto per il sostentamento del clero. La cinquina vanta 862 appartamenti, case, cascine e più di mille terreni secondo la ricostruzione del “Corriere Veneto”. E poi società finanziarie con interessi nelle energie rinnovabili e perfino investimenti in Bulgaria. Nell’immobiliare l’opera della provvidenza ha puntato su tre srl: “Ideal Tre”, “Case e Case” e “Al Prà”. Per “Al Prà” i soci sono il sindaco di Montagnana, Loredana Borghesan (Lega), il presidente del consiglio comunale di Vigonza, Sandro Benato (Forza Italia). Tutti insieme per costruire un agriturismo con bagno turco, massaggi e piscina tra le colline della Valle Agredo. Un pallino per l’offerta turistica-religiosa che serve tutte le tasche: ecco il Park Hotel Des Dolomites di Borca di Cadore, alle porte di Cortina (Belluno). E poi residenze ad Asiago (Vicenza) e a due passi dalla Basilica di Sant’Antonio un palazzo d’epoca come ostello.

Dominus di tutte le attività è il commercialista Francesco Giordano, è lui che decide la ristrutturazione della Casa del clero: un pensionato per sacerdoti costato 13 milioni. Per ogni singola stanza un conto da 370 mila euro, pochi metri quadri che valgono il costo di un appartamento. Per dieci anni Giordano è stato a capo dei revisori dell’istituto diocesano per il sostentamento del clero, e una volta lasciata la poltrona è stato sostituito dai suoi soci. Con un palese conflitto d’interessi: dava il suo ok al bilancio redatto dal suo stesso studio. A giugno 2014 un brusco stop: il professionista viene arrestato per lo scandalo tangenti del sistema Mose, con milioni di euro spariti in un vorticoso giro di società estere. A un anno di distanza Giordano ha deciso di patteggiare la pena.

L’ORO DEL DIAVOLO

Le diocesi inevitabilmente delegano la gestione a professionisti esterni. E più gli investimenti sono complessi, più il controllo diventa difficile. La curia di Trento tramite l’Istituto atesino di sviluppo (Isa) ha un portafoglio di partecipazioni azionarie da 116 milioni, che - unica eccezione di trasparenza - viene presentato con un report dettagliato: il suo raggio d’azione spazia dalle multiutility alle autostrade fino alle quote di banche, assicurazioni, marchi come Moncler e giornali. Un capitale sociale di quasi 80 milioni, affidato a Giorgio Franceschi, che spiega a “l’Espresso”:«I nostri soci sono una serie di enti ecclesiastici, investitori istituzionali e molte persone fisiche. Puntiamo su iniziative che possano avere un impatto positivo sull’economia del territorio cercando la massima trasparenza».

Nel 2012 però il fondo Progressio, dove Isa ha una quota del 12 per cento, ha deciso di comprare una catena di compro oro con cuore finanziario in Lussemburgo e 450 punti vendita tra Italia e Spagna. Un settore considerato maligno dagli stessi vescovi, perché si alimenta della disperazione di chi vende anelli e collane per pochi spiccioli a cui si aggiungono sospetti di riciclaggio di denaro sporco. Durante la trattativa, lo stesso Franceschi ha sollevato i suoi dubbi, condivisi dal vescovo, contestando l’investimento. Ma neppure le sue dimissioni dal board hanno spinto la maggioranza degli azionisti di Progressio a desistere dall’operazione. Così la diocesi si è ritrovata suo malgrado a partecipare a un business che disprezza. E che si è rivelato un pessimo affare: i ricavi di Orocash che nel 2012 erano di 260 milioni oggi si sono dimezzati.

SESSO, BUGIE E SOLDI

I vescovi servitori di due padroni - Dio e ricchezza - spuntano anche al Sud. A Palermo, per anni il potere «immobiliare» della Curia è stato al centro di liti e scelte controverse. Per monsignor Giuseppe Pecoraro, economo in pensione, non ci sono dubbi: quel patrimonio è gestito male, decine di case pensate per i preti e affittate ai privati. E patrimoni delle opere pie svenduti per fare cassa. Come l’area Quaroni, un maxi terreno abbandonato nel centro storico. All’arcivescovo emerito Paolo Romeo era stato chiesto di donare quello spazio per farne un parco o un centro per i bambini. Ma dopo anni di immobilismo è arrivata la scelta di affidarla al gruppo Eurocostruzioni e trasformarlo in abitazioni lussuose e uffici.

Adesso Bergoglio ha sostituito Romeo, che vantava una dote personale di una trentina di immobili, con il parroco di provincia Corrado Lorefice. E a settembre monsignor Calogero La Piana ha lasciato la guida della diocesi di Messina «per motivi di salute», mentre in città infuriavano le polemiche sui rapporti con un sindaco ex seminarista e gli investimenti in banche locali. A Mazara del Vallo poco più di un mese fa monsignor Domenico Mogavero, ex sottosegretario della Cei, è finito sotto inchiesta per l’appropriazione indebita di 180 mila euro. La procura indaga su un buco nei conti diocesani, con soldi usati pure per saldare i debiti di un parroco sospeso a divinis e condannato per tentata violenza sessuale. Mogavero è convinto di uscirne a testa alta, sostenendo di avere segnalato lui le anomalie ai magistrati.

Sesso, bugie e soldi sono anche il filo conduttore di una storia che ha come protagonista l’ex vescovo di Trapani Francesco Miccichè. A suo nome si scopre un vero tesoro non compatibile con i redditi di un porporato: una grande villa a Monreale, un’altra a Trabia, diversi appartamenti e un’intera palazzina a Palermo. Tutti immobili di valore arredati con statue, crocifissi e quadri sottratti al patrimonio vescovile. Una fortuna messa in piedi grazie alla complicità dell’ex direttore della Caritas don Sergio Librizzi.

Secondo la ricostruzione della Procura i due erano legati da un accordo che funzionava così: Miccichè consentiva a Librizzi di gestire i centri e i milioni pubblici per i rifugiati e in cambio di falsi documenti avrebbe messo le mani su 800mila euro dell’otto per mille. Un patto di ferro che non viene sciolto neppure quando si scopre il “vizietto” di don Librizzi e l’ombra della pedofilia. Il prete, accusato di violenza sessuale e condannato in primo grado a nove anni, avrebbe approfittato del suo ruolo per ottenere prestazioni da chi sbarcava nell’isola. E finiva nei centri trasformati in Sodoma grazie al silenzio del vescovo con la passione del lusso.

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