
Una prova di forza che non serve solo a tentare di far saltare le norme più progressiste del disegno di legge Cirinnà sulle unioni civili, come la parificazione giuridica tra matrimonio etero e omosessuale ?e la possibilità di adottare il figlio ?del compagno gay. Ma a mostrare ?ai politici e ai media che i cattolici italiani sono ancora capaci di mobilitarsi in massa, almeno quando si tratta di difendere i valori che Santa Romana Chiesa ritiene non negoziabili.
Anche papa Francesco non è contrario alla manifestazione del Circo Massimo: lo scontro con il presidente della Cei Angelo Bagnasco non si è consumato infatti nel merito ma nella forma. Che per Bergoglio, però, coincide spesso con la sostanza. ?Il papa non ha gradito che il numero uno dei vescovi italiani abbia “benedetto” il Family Day senza concordare prima con la Santa Sede ?una linea di comunicazione. Per il papa il raduno non solo doveva essere organizzato esclusivamente da laici, ?ma doveva essere “appoggiato” dalla Chiesa italiana in religioso silenzio.
Un sostegno invisibile, da gestire dietro le quinte, per evitare strumentalizzazioni politiche ?che in passato hanno spaccato ?la Chiesa e creato malumore in parte importante dell’opinione pubblica. «Il protagonismo di Bagnasco è ahimè in linea con gli interventi a gamba tesa dei vertici della curia e della Cei, abituati ?da sempre a muoversi come una lobby politica», spiega uno dei collaboratori vicini a Francesco, colpito dall’attivismo dei presuli conservatori. «I tempi sono cambiati. Il papa vuole che la distanza tra vescovi e palazzi sia la maggiore possibile. Il muro contro muro ha prodotto sconfitte in battaglie storiche, come quelle sull’aborto e sul divorzio».
Sia il Family Day un successo o meno (da Faenza a Napoli passando per Padova e Vercelli più di un prete ?- mi hanno raccontato alcuni fedeli nei giorni scorsi - ha invitato durante le omelie i devoti a partecipare ?al corteo) è certo che lo strappo non sarà facile da ricucire. Come accaduto Oltretevere, anche alla Cei Francesco sta tentando di scardinare vecchi ?gruppi ancora dominanti, recalcitranti a mollare il governo di una struttura potente e mastodontica, di gran lunga la più importante e ricca Conferenza episcopale del mondo. Che non ha perso il vizio di stringere alleanze con i politici cattolici di ogni partito e dividersi in fazioni che lottano per il dominio dell’assemblea.
La partita, come sempre, è per il controllo della cassaforte. È noto che la Cei dal 1990 gode dei finanziamenti pubblici dell’8 per mille, una legge che - bilanci alla mano - in 26 anni ha portato nelle casse dei vescovi 19,3 miliardi di euro. Secondo l’ultima relazione della Corte dei Conti nel 2014 l’incasso è stato pari a un miliardo e 54 milioni, un tesoro ottenuto attraverso un sistema che per i magistrati contabili «ha contribuito a un rafforzamento economico senza precedenti della Chiesa italiana, senza che lo Stato abbia provveduto ad attivare le procedure ?di revisione di un sistema che diviene sempre più gravoso per l’erario».
?Lo studio evidenzia poi la totale assenza di trasparenza sull’utilizzo dei fondi, e che solo il 23 per cento delle somme che gli italiani regalano alla Cei e all’Istituto centrale per il sostentamento del clero viene investito per fare beneficenza ?e per aiutare i più poveri, coloro ?che - secondo la retorica del Vaticano ?di Bergoglio - dovrebbero incarnare ?il core-business della Chiesa. ?Una percentuale criticata anche dalla Commissione paritetica Italia-Cei, che ha evidenziato la «non soddisfacente quantità di risorse destinate agli interventi caritativi». Un vulnus ?per il papa degli ultimi e per la Chiesa italiana: è vero che la legge prevede che ?i soldi dei contribuenti possano essere spesi anche per le necessità dei sacerdoti e delle diocesi, ma dal 2004 al 2013 i vescovi hanno comprato, solo sulla Rai, 40 milioni di euro di spot pubblicitari che battono tutti sul medesimo storytelling: quello della carità.
La stragrande maggioranza dei denari serve invece a pagare gli ?stipendi di vescovi e preti, la costruzione di nuovi edifici di culto, il restauro delle chiese, o per finanziare «l’esercizio della cura delle anime», che si traduce ?in un sostegno alle facoltà teologiche, agli istituti di scienze religiose e alle necessità a favore «del clero anziano e malato», più non meglio definiti «mezzi di comunicazione sociale».
Insomma ?al netto degli scandali a scadenza settimanale (recentemente l’ex vescovo di Trapani è stato indagato perché accusato di essersi appropriato di circa 2 milioni di euro dai fondi dell’8 per mille per comprarsi ville e bed&breakfast, mentre l’ex numero tre della Cei Domenico Mogavero è finito sotto inchiesta accusato di essersi appropriato di 180 mila euro dai conti della curia) non sembra che la Cei si sia adattata al nuovo corso.

La rivoluzione tentata da Bergoglio trova alla Cei resistenze perfino superiori a quelle organizzate in curia. ?È vero che qualche settimana fa il papa è riuscito a nominare a Palermo e Bologna due preti di strada come don Corrado Lorefice e Matteo Zuppi, bocciando i candidati dei cardinali Camillo Ruini e Giovanni Battista Re.
Ma è un fatto che la riforma della Conferenza è ancora in mezzo al guado, e che la transizione rischia di durare troppo: Bagnasco - scelto da Benedetto XVI - nonostante sia da tempo inviso al gesuita argentino è rimasto al suo posto, mentre Nunzio Galantino, la quinta colonna che il papa ha voluto come segretario della Cei, è osteggiato ogni giorno dall’asse del Nord, la cordata di estrazione ruiniana composta dall’arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia, da quello di Milano Angelo Scola e dal veneziano Francesco Moraglia. Una fronda potente, con cui Bergoglio non verrà facilmente a patti.