Esordio difficile a Piazza Affari per il marchio di Maranello, che nei mesi scorsi ha perso terreno anche a Wall Street. Per il momento la separazione da Fca porta profitti solo alla holding guidata da John Elkann

C’è da scommettere che questa mattina, potendo scegliere, Sergio Marchionne avrebbe volentieri rinviato l'esordio della Ferrari alla Borsa di Milano. Com’era prevedibile, la bolla di retorica e marketing costruita attorno all'atteso debutto della griffe dei motori non è riuscita a proteggere la Rossa di Maranello dalla burrasca borsistica partita oggi dalla Cina, che ha chiuso in anticipo gli scambi con gli indici in perdita del 7 per cento.

E così il premier Matteo Renzi, presente questa mattina a Piazza Affari per celebrare l'evento, si è trovato a cantare le lodi dell'amico Marchionne mentre i display degli operatori scandivano una giornata al ribasso.

Nel corso della mattinata le perdite sono state in parte riassorbite, ma nel pomeriggio il titolo è tornato in rosso per poi recuperare ancora. Al netto dei saliscendi nel giorno dell'esordio milanese, però, è difficile affermare che la Ferrari in Borsa abbia fin qui dato grandi soddisfazioni agli investitori. Il marchio simbolo dei motori Made in Italy è infatti già trattato a Wall Street dallo scorso 21 ottobre, dopo che il 10 per cento del capitale Ferrari è stato collocato al pubblico a un prezzo di 52 dollari per azione.

Ebbene, a fine anno la quotazione era scesa a 48 dollari con una perdita per gli azionisti intorno al 7,5 per cento. Con lo sbarco alla Borsa di Milano, la Ferrari si è sganciata una volta per tutte dal suo azionista storico, cioè la Fiat, diventata Fca dopo le nozze americane con Chrysler. Tutti i soci del gruppo automobilistico, a cominciare dalla holding Exor degli Agnelli, hanno ricevuto un titolo della Rossa per ogni 10 di Fca.

La regola vale anche per Marchionne, che possiede 13 milioni di titoli Fca. A questi si aggiungono quindi 1,3 milioni di azioni Ferrari per un valore di 56 milioni di euro circa. Il tesoretto del manager, comprendendo anche il suo pacchetto di titoli Fiat-Chrysler (quotati al nuovo prezzo dopo la scissione Ferrari), vale quindi quasi 160 milioni. 

Obiettivo dichiarato di Marchionne era quello di far emergere il valore di Ferrari a beneficio di tutti gli azionisti Fca. E infatti è bastato l'annuncio, nell'ottobre 2014, della prossima scissione dell'azienda di Maranello per innescare il rialzo dei titoli Fiat Chrysler, che hanno più che raddoppiato il loro prezzo nell'arco dei sei mesi seguenti. A partire dai massimi dell'anno scorso, invece, la quotazione di Fca si è sgonfiata del 20 per cento circa, ma il guadagno resta comunque superiore al 60 per cento rispetto alla data dell'annuncio delle novità su Ferrari. Ora che la separazione è completa, i prossimi mesi ci diranno quale sarà il destino dei due titoli in una fase di mercato che si preannuncia quantomeno incerta.

Nel frattempo, sul fronte degli assetti azionari, la manovra su Ferrari va ha tutto vantaggio degli Agnelli. La famiglia guidata da John Elkann resta il primo azionista dell’azienda di Maranello con una quota del 23,5 per cento circa, a cui va agggiunto un altro 10 per cento di proprietà di Piero Ferrari, l’erede del fondatore. In assemblea, però, i due soci maggiori, legati tra loro da un patto di sindacato, valgono insieme il 48,8 per cento dei voti e questo grazie al trasferimento della sede legale della Ferrari in Olanda, dove la legislazione locale consente di attribuire un premio speciale agli azionisti stabili.

Messo in cassaforte il controllo, gli Agnelli hanno il vantaggio supplementare di poter attingere direttamente al ricco bilancio della griffe dei motori che fino a ieri faceva parte di Fca. Quest'ultima invece dovrà fare a meno di una fonte importante di reddito, visto che Ferrari garantiva oltre il 12 per cento dei profitti operativi del gruppo automobilistico.

Per dare un'idea dei valori in gioco va segnalato che, una volta completata la separazione, il colosso Fca con i suoi 95 miliardi di ricavi vale in Borsa circa 11 miliardi di euro. La piccola ma redditizia Ferrari, con un giro d'affari annuo inferiore ai 3 miliardi, ai prezzi di oggi capitalizza invece sul mercato più di 8 miliardi. Peraltro, mentre dà l'addio al suo gioiello, il gruppo Fiat Chrysler attinge a piene mani dalle casse ricche di liquidità di Ferrari, che verserà alla sua ex controllante circa 2,5 miliardi di euro, una somma che va aggiunta agli 890 milioni di euro incassati ad ottobre con il collocamento per lo sbarco a Wall Street.

Questo denaro fa molto comodo a Fca, che deve fare i conti con un indebitamento pesante, circa 6 miliardi dopo l'addio al Cavallino rampante. Ferrari invece che nei primi nove mesi dell'anno viaggia con profitti lordi (Ebitda) di 567 milioni su 2,1 miliardi di fatturato, può permettersi di reggere senza eccessivi problemi un indebitamento di 1,9 miliardi. Questa, almeno, è la convinzione di Marchionne, che ha paragonato l'azienda di Maranello a una griffe del lusso internazioale come Hermes o Prada.

Tutt'altro discorso per Fca che punta a centrare gli obiettivi annunciati dal manager italocanadese. Ovvero l'azzeramento del debito e un utile di 5 miliardi di euro entro il 2018. Obbiettivi ambiziosi, forse troppo. A meno che, di qui a qualche mese, non si apra davvero un’altra partita, quella della fusione con General Motors, di cui si è molto parlato nelle settimane scorse. Le avances di Marchionne fin qui sono state respinte dal gigante americano, ma il capo di Fca non è davvero il tipo che si arrende facilmente.   

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