Gorizia, dove l’Europa non ha confini

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Mentre nella Ue si alzano muri e barriere, nel capoluogo isontino italiani e sloveni celebrano un record controcorrente: la linea tra due Paesi più aperta del continente. Proprio lì un tempo 
c'era la "cortina di ferro" (Foto di Giuliano Koren per l’Espresso)

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Lucia Pillon osserva la valle ai suoi piedi dall’alto del monte dove sorge il monastero francescano della Castagnevizza in cui è seppellito l’ultimo Borbone di Francia, morto in esilio nel 1836. Il sole è caldo in questo inizio di settembre: avevano ragione gli asburgici a chiamare Gorizia la “Nizza dell’Impero”, dove tanta nobiltà finiva la vita tra teatri, boccali di vino del Collio e sale da gioco. Ma Pillon, storica della città guarda agli eventi più recenti e, indicando quella conca ricolma di casette dai tetti rossi, mestamente sospira: «È un enorme cimitero».

Esattamente un secolo fa cinquantamila giovani italiani furono spediti al massacro per sottrarre questa perla multietnica all’impero austro asburgico e farne, complice la Storia, una delle città di frontiera più emblematiche d’Europa: nella seconda metà del Novecento Gorizia divenne l’ultimo bastione armato dell’Occidente capitalista contro l’Oriente comunista. La “cortina di ferro” contro la minaccia sovietica. Da questa parte dei binari della ferrovia noi, al di là loro. Poi l’imprevisto del 1989: il crollo del muro di Berlino. Quindi, e siamo nel 2004, l’entrata dell’ormai Slovenia nell’Unione europea. E il mondo cambiò in un giorno.

[[ge:rep-locali:espresso:285235381]]Così oggi, in un’epoca in cui si ergono muri, Gorizia naviga controcorrente, disfacendosi della vecchia pelle, e incarna, suo malgrado, il sogno di un’Europa senza confini. Perché l’unica speranza sia di Vecchia Gorizia (la nostra metà) che di Nova Gorica (la loro) di non finire nell’irrilevanza geografica è unire le forze e costruire una vera città cross-border europea. Con strutture comuni e appalti pubblici affidati a un’entità giuridica sovranazionale. A dispetto di una Storia drammatica che nessuno dimentica e dell’atavica diffidenza che allontana le genti mediterranee dalle slave.

«Serve un cambio di generazione», racconta Matej Arcon, 41 anni, sindaco di Nova Gorica, in un italiano faticoso: «Che ci permetta di trasformare il nostro comune svantaggio di città periferiche, al di fuori delle principali rotte commerciali nazionali, in un vantaggio». Ovvero essere i primi in Europa a costruire un’identità comune.

Ma andiamo per gradi. Quando all’indomani della Seconda guerra mondiale, gli inglesi tracciarono un’arbitraria riga rossa tra le strade, le aie e le piazze di Gorizia, senza saperlo, fecero la fortuna della vecchia cittadina imperiale. Certo nel cimitero di Mirne, oggi meta turistica, i morti si ritrovarono con la testa in Italia e i piedi in Jugoslavia e non pochi furono i contadini che videro i loro campi in Jugoslavia e la loro casa in Italia.

Persino le stazioni ferroviarie di Gorizia furono divise: quella settentrionale rimase alla Città vecchia, quella meridionale divenne proprietà di Tito, ché altrimenti i suoi binari sarebbero rimasti orfani. La piazza antistante, la Transalpina, per decenni si trasformò nel simbolo di una città drammaticamente divisa in due: da una parte tutte palazzine ottocentesche e negozi con boiserie e lucette colorate; dall’altra, Nova Gorica, edifici di stampo sovietico per gli uffici e parallelepipedi colorati per le abitazioni.

Ma il confine non fu mai blindato come quello di Berlino. I goriziani godevano di un lasciapassare che facilitava gli scambi. E siccome Gorizia era da sempre il punto di riferimento di tutta quell’enorme valle che oggi ricade in Slovenia e un tempo era semplicemente parte dell’impero asburgico, e poiché negli anni di Tito la modernità e il commercio stentavano ad avere posto nella vita quotidiana, la nostra Gorizia divenne rapidamente un fiorente centro commerciale. «Quando ero bambina andare a Gorizia era una festa. E compravamo di tutto, senza badare alla qualità», racconta Maryana Simcic, 37 anni, oggi responsabile marketing della cantina Klet Brda, sul versante sloveno del Collio: «I jeans in particolare erano l’oggetto dei nostri desideri».

A vendere e a fare soldi a palate nei negozi di via Rastello e via Carducci, oggi un susseguirsi di bancali e scaffali di legno antico che si scorgono tra vetrine vuote e cartelli affittasi, erano gli italiani della minoranza slovena, gli stessi che per secoli avevano fatto affari, generazione dopo generazione, con i contadini della Valle. Nelle vie circostanti, invece, ad arricchirsi erano gli italiani - a Gorizia non esiste il bilinguismo come in Trentino Alto Adige ma solo la convivenza di due lingue - che vendevano ai cinquemila militari di stanza in città e alle loro famiglie. Di contro, gli italiani in Slovenia andavano a fare il pieno di benzina e a comprare la carne e le sigarette, entrambe a buon mercato. Lo zucchero a poco prezzo attrasse invece gli industriali dolciari che qui aprirono laboratori e fabbriche. Un equilibrio perfetto, cortesia della Guerra Fredda.

Ma con il 1989 spariscono i soldati, lasciando vuote decine di caserme. Una manciata di anni dopo scompaiono pure gli acquirenti sloveni. Con l’entrata nella Ue, la costruzione di un’autostrada fino a Lubiana e la modernizzazione di Nova Gorica, non hanno più bisogno di varcare il confine per fare spese. La differenza di prezzo tra i due paesi comincia a ridursi. E sono gli italiani che si avventurano in “Jugo” per visitare i primi centri commerciali, osteggiati in Patria dai commercianti locali spaventati dalla potenziale perdita di clienti, e a infilarsi nei tanti casinò gestiti dallo Stato sloveno.

Shopping e gioco (e financo il sesso) hanno ormai varcato il confine. E non sono i soli. Con una tassazione di poco superiore al 20 per cento, molte aziende italiane di nuova generazione scelgono il parco tecnologico di Nova Gorica per muovere i primi passi. «Il 60 per cento», dice senza nascondere un sorriso di soddisfazione Arcon.

Sono tanti gli sloveni che, dopo anni di inferiorità economica e culturale, vivono la rinascita della loro zona come una rivincita sugli italiani, particolare che spesso non aiuta le relazioni tra i due versanti della città. «I giovani non imparano più l’italiano», continua il sindaco: «Gli preferiscono l’inglese e pure il tedesco perché l’italiano non è rilevante nelle loro vite». Al contrario, dopo averlo disprezzato per decenni, sono gli italiani più giovani che si avvicinano allo sloveno, mandando i figli nelle scuole di oltre confine a dispetto di una minoranza etnica slovena che vorrebbe detenere l’esclusiva sulla lingua (e sui fondi dello Stato italiano per le minoranze) “ad infinitum”.

Sanno che l’abolizione di un confine non può prescindere dal modo in cui ci si dice “Buongiorno”. Ed è un bene. Perché a rischiare di diventare completamente irrilevante è una Gorizia che Pillon descrive come «un buco di provincia impigrito e invecchiato che da anni campa di fondi pubblici», dove i commercianti sono incapaci di aggiornare l’offerta economica e le aziende di uscire dalla logica dell’economia di guerra. E dove gli ultra 65enni rappresentano ormai quasi il 40 per cento degli abitanti. «Dovremmo attirare i giovani con le università», si lamenta il sindaco di Forza Italia Ettore Romoli, 78 anni, quasi il doppio di quelli del sindaco di Nuova Gorizia, orgoglioso di avere trasferito in città la facoltà di Architettura dell’Università di Trieste, attirando 2500 studenti. «Tutto sbagliato!» gli tuona contro Gianluca Madris, presidente della Camera di Commercio: «Gorizia è storicamente un luogo di villeggiatura per anziani. Su questa vocazione potrebbe ricostruire la sua fortuna».

In realtà tutte e due le Gorizie non stanno vivendo il loro miglior momento economico. La crisi del 2008 ha avuto un profondo impatto su un tessuto già lacerato: nella vecchia sono sparite le attività industriali e nella nuova arrancano i casinò, che sono ancora lo zoccolo duro del Pil locale. Ma non è la prima volta che una crisi genera opportunità inaspettate. Sia italiani che sloveni credono in una speranza di nome Gect: Gruppo europeo di cooperazione territoriale, lo strumento giuridico inventato dall’Unione europea per la realizzazione di progetti da parte delle popolazioni che vivono sul confine, ovvero oltre un terzo di tutti gli europei.

«Le due città devono puntare sul turismo e devono farlo insieme», spiega Sandra Sodini, quarant’anni di entusiasmo, responsabile dei progetti europei: «Non potendosi permettere inutili duplicazioni di infrastrutture devono trovare il modo di condividere quelle esistenti e di crearne di nuove in comune». Ma, viste le resistenze storiche e culturali, meglio andare sul sicuro e cominciare dai progetti minori che riscuotono il favore di tutti.

Come il “parco transfrontaliero dell’Isonzo”, migliaia di chilometri di piste ciclabili costruite intorno al corso del fiume Isonzo, un tempo confine naturale, e tra i filari di vitigni di questa Toscana del Nord che pochi italiani conoscono. La Ue ha già stanziato 5 milioni di euro che - ecco la straordinarietà dell’iniziativa - affiderà a un’unica stazione appaltante gestita da terzi che valuteranno tanto le offerte delle ditte slovene quanto quelle delle società italiane. Sarà il primo caso in Europa. «Stiamo abbattendo i muri partendo dal basso», sottolinea Sodini: «Credo molto nel turismo e nel fascino della Storia del Novecento, come dimostra il successo di Berlino. A Gorizia le ferite sono ancora aperte ma è questione di un’ultima generazione. Dopo 70 anni di confine è tempo di ricostruire la nostra collettività allargata».

Sempre nell’ambito del Gect, l’Europa ha stanziato altri cinque milioni di euro per il “Centro unico di prenotazione”, un sistema che intende far dialogare i due ospedali cittadini ed evitare la duplicazione dei servizi. E siccome le difficoltà sono tante - dalla lingua dei medici alle procedure - anche qui si comincerà con due settori tra i meno controversi. I cittadini italiani come quelli sloveni potranno rivolgersi al reparto di maternità dell’ospedale di Sempeter, in terra slovena, dove si fanno più figli che da noi, e a quello di salute mentale in Italia, Paese all’avanguardia in materia (proprio a Gorizia Franco Basaglia mise in pratica la sue idee rivoluzionarie che portarono alla chiusura dei manicomi).

I progetti finanziati dall’Europa e fortemente voluti da chi crede che abbattere le frontiere sia ancora possibile, persino in questo momento in cui «non è fashion», come scherza Sodini, costruiscono su consolidati ma sporadici tentativi di eliminare non solo il confine fisico, ormai solo curiosità turistica, ma, soprattutto, quello mentale. Aveva iniziato la fiera “Gusti di frontiera” che promuove le cucine degli Stati e delle culture del confine ogni terza settimana di settembre, ed è diventato un appuntamento europeo. E poi la fiera italiana Expomego che, in forte declino dieci anni fa, sta vivendo una seconda giovinezza con l’afflusso delle aziende slovene. Sono in aumento le iniziative che promuovono congiuntamente la tradizione vinicola del Collio e ne fanno meta turistica di austriaci nostalgici, italiani curiosi e sloveni di nuova generazione. Nella convinzione che per eliminare un confine di vetro non bastino le leggi. Ma che sia indispensabile un cambio di mentalità. Che nasce dal basso, tra la gente. Lavorando e divertendosi insieme.

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